Articolo già pubblicato sulla rivista “DPU- DIRITTO PENALE e UOMO – Rivista internazionale di studi giuridici e antropologici”
Le trame di tante brutte storie di violenza sulle donne scorrono agghiaccianti e quasi sovrapponibili.
Ma ci sono protagonisti altrettanto innocenti che restano nell’ombra, non sempre si parla di loro.
Perché ci sono le vittime e i carnefici, c’è Abele e c’è Caino ma poi ci sono i figli e i nipoti, i discendenti dell’una e dell’altro, ci sono minori che avevano un padre ed una madre ed ora sono rimasti orfani di entrambi, l’uno in carcere perché assassino e l’altra scomparsa perché annientata e uccisa.
Quando accade un fatto di cronaca nera ci si sofferma sui dettagli dell’episodio ma sovente ci si dimentica di considerare “chi resta” , spesso orfani privati improvvisamente di una famiglia , degli affetti quotidiani, in modo cruento. O se lo si fa non si va oltre la retorica di una umana considerazione appena accennata e destinata a scomparire nell’oblio. Restano esistenze affidate alla solidarietà di chi può o vuole occuparsene.
Purtroppo si tratta di casi in aumento , fino a costituire una sorta di fenomeno sociale
I colpevolisti e gli innocentisti sono troppo impegnati nel cercare buone e sostenibili ragioni di difesa o di accusa per occuparsi di chi non ha voce o argomenti per esprimere il trauma di una nuova condizione esistenziale: spesso la schiera degli interlocutori si riduce al ristretto ambito familiare, certamente ai servizi sociali e alle istituzioni più sensibili ma il cammino della vita di queste creature conosce un brusco, doloroso cambio di direzione.
Quando assistono alle violenze domestiche, quando vivono e percepiscono situazioni emotive insostenibili, quando sono testimoni dei conflitti e degli scontri fisici tra i loro genitori, quando sanno della soccombenza delle loro madri picchiate, violate, stuprate e uccise, i minori sono il più delle volte soli ed essi stessi indifesi, vittime innocenti di tragedie che segneranno per sempre il loro destino.
Eppure queste sofferenze nascoste, queste ferite indelebili restano spesso sottotraccia nella narrazione delle storie di violenza familiare, nella descrizione dei fatti di cronaca nera, oppure minimamente accennate, come un inciso, un corollario, un’appendice.
Non esiste un titolo, una “prima pagina” per questi bambini, adolescenti o ragazzi che siano, eppure sono loro che – spenti i riflettori e nebulizzata l’eco della cronaca – dovranno farsi carico di un fardello insostenibile generato da una nuova, improvvisa condizione di soccombenza.
Nell’immediatezza del fatto sono solo sfiorati da un cenno di cronaca, restano ai margini della vicenda e questo per certi aspetti li mette al riparo dalla curiosità morbosa, nascosti, protetti: ma “dopo”, che ne sarà di loro? C’è da dire che neanche nella considerazione del dolore, nell’immedesimazione nei vissuti e nelle emozioni, questa società sa dare ai piccoli protagonisti di questi drammi umani la dovuta attenzione.
Molto più facile e intrigante ricostruire i moventi e dettagliare i gesti criminali – l’arma, la postura della vittima, gli aspetti più scabrosi – che occuparsi in qualche modo di aiutare, sostenere chi non riesce a capire, non può ancora farlo perché ciò che aveva e ciò che gli resta, ciò che può pensare, i dubbi, le paure, la solitudine, le angosce, i silenzi del suo cuore non sono (ancora) mediaticamente interessanti.
Sono altra cosa: storie ancora non scritte che restano oscurate dalla preponderanza di una cronaca che spesso, e non per pudore, tace di loro.