Montecitorio, il Var e la parola al confino.

Parlare è un esercizio fuori moda e soprattutto improduttivo. È più semplice cambiare i connotati al politico della parte opposta che consumare un vocabolario per argomentargli le proprie ragioni.

Montecitorio è diventata una palestra, un modo per scaldare i muscoli visto che le menti sono rattrappite in un definitivo riposo dal pensiero. Ci sono state scene da pugilato, che i parlamentari sono riusciti a declassare da nobile arte a rissa di strada. Una politica orba che vanta una visione dandosi botte da orbi.

C’è chi avrà appreso lezioni di scenografia dalle tifoserie di calcio su come si mette in piedi uno spettacolo con i fiocchi, con tanto di bandiere nazionali da sventolare e da far indossare per sfottò agli avversari politici. 

Nel contesto, altri a sgolarsi sull’inno nazionale per darsi coraggio e poi il via ad una baruffa che segna forse il punto più basso di episodi avvilenti a cominciare, anni fa, dai cappi ostentati nell’aula delle votazioni come segno di protesta contro la parte avversa. 

Sarà stato di struggente il richiamo alla ostentazione delle fette di mortadella e altre folcloristiche iniziative del passato. Forte, probabilmente, anche l’invidia per il Festival di Sanremo e quindi via a cantare ad ogni buona occasione, tutto purché non si parli.

Si comincia con tollerare il minimo, che sembra solo un eccesso di ricorso alla fantasia od un’eccezione, per arrivare al gran finale, dandosele di santa ragione, insegnando plasticamente agli italiani i fondamenti della convivenza tra diversi. 

Ci vorrà il Var per stabilire le responsabilità dei fatti. Di sicuro si è varcata la soglia minima di decenza e si è ulteriormente divaricata la distanza tra l’accettabile e l’inconcepibile. La Camera dei Deputati, mutuando dallo spagnolo, si è messa nelle vare, cioè in secca. 

È mancato poco, oltre alle mani, che si sia usata anche la vara, una antica pertica di legno, per bastonare quelli che non sopporti.

Solo la Schlein si è lamentata per l’astensionismo registrato in sede di votazioni del Parlamento europeo. Un sussulto di vergogna che altri non hanno avuto, si sono evidentemente risparmiati il fiato per conservarlo appena c’è da scontrarsi in Parlamento. 

Il cittadino della strada è sdraiato sul lettino dello psicologo per chiedere da che parte stare: se essere tra quelli che ormai se ne fregano o tra quelli che inorridiscono. Mancano all’appello quelli che condividono pugni e cazzotti; prima o poi, così continuando, ci saranno anche quelli. È solo questione di tempo. 

Per fortuna non c’è troppo da preoccuparsi. Il Parlamento non conta più nulla o comunque assai poco. Le leggi sono per la maggior parte in mano al Governo di turno, che si muove con la decretazione d’urgenza. 

Si schiacciano i bottoni all’ordine dei segretari di partito, residuale un briciolo di autonomia personale. Sembra che pensare sia vietato, come è abrogato il dibattito all’interno di partiti che sono espressi dal leader di turno e non viceversa. 

È questo il contesto in cui i diritti sostanziali di ciascuno perdono posizione. Si parla di sanità e di salute, un tempo il fiore all’occhiello del nostro paese. Il medico condotto era come il padre confessore e cuciva, con rammendi continui, malattie e storie di persone costruendo la rete essenziale delle relazioni di una comunità. 

Pian piano le cose si sono ingarbugliate fino a piegarsi al mito della efficienza e del fatturato. Si è giocato di sigle: da ospedali si è passati alle Usl fino alle Asl. 

Oggi abbiamo le Aziende sanitarie a dare conforto ai nostri acciacchi. Azienda è uno strano modo di intendere la cura di una malattia. Rammenta piuttosto un profitto, un imprescindibile risultato con segno positivo, almeno di cassa se non di guarigione. Il medico di base fatica a rispondere l’esercito dei suoi assistiti. Il suo studio è piuttosto una produzione di ricette, spesso rimandandosi ad uno specialista. Tutto va bene, ma la parola latita. Non per cattiva volontà ma perché il tempo è un valore che ci ha preso la mano.

Negli Ospedali i Direttori Generali assegnano ai propri medici un tempo di visita che non deve eccederne una certa stringata quantità. Qualcosa di simile al richiamo del Papa ai sacerdoti quando ha indicato che una omelia non deve superare orientativamente gli otto minuti.

La tecnologia terrà sempre più banco, tutto supporta lasciando al medico appena la sentenza finale. Chi sta nei ranghi, nel rispetto delle previste sequenze di visite, riceve persino un premio. Si sbandiera il progresso della telemedicina e così la parola si ammalerà e per lei non ci sarà salvezza. Nessuno che possa e voglia curarla. 

Nessuno dei camici bianchi che in futuro siano autorizzati ad ascoltare, magari segnando sul diario di bordo la tua storia di malanni ma anche di inquietudini e di apprensioni. Nessuno che possa rispondere con la sapienza posseduta solo da chi ha potuto conoscerti.

Al Parlamento sono molti più avanti. Hanno dato un segno di anticipo al paese. Del resto, sono i rappresentanti del popolo quelli che dovrebbero indicare la rotta e loro non si sono fatti pregare. I gesti e non le parole sono oggi la testimonianza di come si sta al mondo.

Parlare è un esercizio fuori moda e soprattutto improduttivo. È più semplice cambiare i connotati al politico della parte opposta che consumare un vocabolario per argomentargli le proprie ragioni. Se l’alfabeto verrà messo in pensione, la cassa sarà più piena e la democrazia conoscerà una nuova inaudita stupefacente stagione di gloria e smobilitazione.