Chissà cosa direbbe oggi quel ministro che definì i giovani “choosy”, schizzinosi, nella ricerca di un posto di lavoro. Forse allora parlava dei giovani studenti borghesi, di quella realtà con cui entrava a contatto quotidianamente. Dei ragazzi e delle ragazze mantenuti dai genitori per studiare, a volte persino fuoricorso, adagiati all’università come nella vita. Eppure, lo specchio del Paese non era evidentemente quello, allora come oggi. Chi definisce i ragazzi “schizzinosi” lo fa ignorando Luana D’Orazio, mamma 22enne morta durante il turno di lavoro, in una fabbrica per la lavorazione tessile, in provincia di Prato.

Uccisa, stritolata dall’ingranaggio di una macchina, il 3 maggio, aggiungendosi alla serie non indifferente di morti sul lavoro, anche tra i giovani che non disdegnano impieghi faticosi e tutt’altro che intellettuali. Chi chiama i giovani “scansafatiche” ignora Sabri Jaballah, anche lui 22nne, anche lui morto in fabbrica a febbraio scorso, morto a Prato in circostanze simili. Alcune costanti: la pericolosità del lavoro, i dubbi sul rispetto delle norme di sicurezza 91/08, e tanta voglia di lavorare, senza guardare lo status sociale, o l’orologio. Nel 2020 i giovani occupati tra i 18 e i 29 anni erano circa 35 milioni. L’immagine di un’Italia diversa, sepolta, per la maggior parte di noi sconosciuta.

Un’Italia che in troppi non vogliono vedere. L’immagine di un Paese in cui tutti, anche i ragazzi, hanno sempre lavorato in ogni ambito, come artigiani e come operai, pur non facendo notizia, pur non essendo nelle grazie di quei genitori che ancora vivono nell’illusione di un figlio medico o avvocato, riversando le loro ambizioni frustrate nei loro figli. Ma c’è un’Italia diversa. C’è sempre stata. L’Italia di Luana e di Sabri. L’Italia di Jessica, una ragazza che conobbi personalmente un anno fa; una studentessa di filosofia, ora laureata. Anche lei non è una privilegiata. Ha lavorato, per poter studiare, come lavora anche oggi, mentre specializza i suoi studi, rincorrendo la sua passione per insegnare, forse, un giorno, ai bambini delle scuole elementari, per quei bambini di cui ha sempre amato la compagnia e per cui ha deciso di formarsi.

Ma ora deve lavorare, Jessica, mentre studia filosofia. Anche lei in fabbrica, nel vicentino, con turni di lavoro anche di 10 ore di fila. L’ho rivista di recente. “Lavori ancora in fabbrica?” Le chiesi. “Si” mi rispose lei, con un tono stanco, ma non sfiduciato. “Come la filosofa Simone Weil”, le dissi. A Jessica le si illuminarono gli occhi, e sorrise. Jessica non studia filosofia: la vive. Questi ragazzi sono i protagonisti non televisivi di un’Italia migliore: una comunità di persone che, anziché formarsi, formano il Paese, restituendo qualcosa, e con gli interessi. Ragazzi e ragazze che non voltano le spalle al lavoro, anche al più duro, senza fare la “bella vita” pur di avere la dignità del sacrificio. Un sacrificio compiuto per esigenza di onestà, che è la più alta gioia dello spirito.