E se il nemico fosse stato avvertito non come un bersaglio da abbattere ma alla stregua di un fratello coinvolto suo malgrado in un conflitto che stava trasformandosi in una carneficina? Nel corso della Grande Guerra successe anche questo: durante il Natale del 1914, in piene ostilità tra Alleanza e Intesa, alcuni soldati (con moto spontaneo) fraternizzarono intonando cori e applaudendosi reciprocamente.
Uno degli episodi più popolari del fenomeno – che non fu generalizzato, è opportuno puntualizzarlo – ebbe luogo sul fronte francese, presso la località di Loos, Fiandre settentrionali. Successe che il 25 dicembre le trincee nemiche interruppero il fuoco e si scambiarono gli auguri di Natale, sussurrando canzoni tradizionali delle proprie terre. I reporters di guerra misero mano alle loro macchine fotografiche riprendendo interi reparti che si venivano incontro abbracciandosi e passando agli annali per l’effetto contrario che la guerra stava provocando nelle file degli eserciti avversi. Paradossale? No.
In quei momenti, tra i combattenti, le parole d’ordine “eroismo tedesco contro lo spirito mercantile anglosassone” o “annientare il nemico dei popoli liberi” persero gravemente di valore e furono discriminate come meno ci si aspettava. Negli alti comandi dei rispettivi stati maggiori qualcuno gridò allo scandalo generando un nuovo casus belli, ma quell’episodio (prolungato) destò più curiosità e perplessità che non ulteriori motivi di rivalsa. Al corrispondente di guerra inglese Gibbs, un giovanissimo soldato confidò:
Gli orribili Unni? No, quelli dell’altra parte sono poveri soldati che come gli altri si trovano in un sanguinoso pasticcio. Domina sui rispettivi nemici un maleficio creato da certi diavoli […], e chissà se da qualche parte esista un Dio…
Dio, per bocca di Papa Benedetto XV, aveva già espresso il suo parere, nonostante le pompose campagne propagandistiche che stavano mischiando il sacro con il profano: il pontefice si appellò infatti alla pace e a una tregua – almeno a Natale – che potesse servire (anche) a riflettere, oltre che a limitare danni e vittime. E mentre i vertici di governo italiani stavano “alla finestra” in attesa di prendere quelle decisioni che nel maggio 1915 si sarebbero rivelate dannatamente drastiche, la convinzione di un conflitto come rimedio a ogni male maturava progressivamente in tutta Europa. L’Italia era invece divisa. Comparve il Manifesto del Futurismo di Tommaso Marinetti, fautore della guerra come “unica igiene del mondo” e adducendo a Trieste come la bella e ideale polveriera nazionale; montava un patriottismo sciovinista condiviso da una parte e non compreso – per non dire osteggiato – da quel modello di società ancora contadina, cattolica e fondata sulla famiglia come istituto fondante. Si trattava, a dire il vero, dell’esatto antonimo di quanti professavano l’intervento contravvenendo all’ispirazione cristiana di pace e non distinguendo più tra patria e fede. L’idea di identità nazionale e del nemico straniero che costituisce una minaccia non veniva in realtà assimilata neanche da buona parte della politica italiana, la quale si distaccò, man mano che dilagava la distruzione, da quei principi di prevaricazione fonti di extrema ratio alla risoluzione delle controversie diplomatiche internazionali (elemento manifestatosi sotto forme diverse anche vent’anni dopo).
Nel frattempo a Loos tedeschi e inglesi continuavano a cantare maneggiando utensili come strumenti musicali, scambiandosi al contempo il Buon Natale. A un certo punto qualcuno di quei ragazzi urlò : «Domani si farà un altro bel concerto!». Ma il giorno seguente il concerto fu molto diverso, perché lo fecero di nuovo cannoni e mortai.