Roma, 2 dic. (askanews) – Ha vinto poche settimane fa il più prestigioso premio letterario del Regno Unito, il Booker Prize: David Szalay, scrittore canadese-ungherese che scrive solo in inglese, è in Italia per presentare il suo bestseller “Nella carne” (in originale “Flesh”). Un romanzo scarno che ha sconvolto il presidente della giuria, l’irlandese Roddy Doyle, e che in Italia l’editore Adelphi aveva già pubblicato, come anche altre opere precedenti dell’autore 51enne, tutte tradotte da Anna Rusconi. A Roma la presentazione è avvenuta in una libreria Feltrinelli affollata; a dialogare con Szalay c’era Sandro Veronesi.
Al termine, Szalay ci dice “No, non scrivo in ungherese. L’unica lingua che parlo abbastanza bene da poterci scrivere qualcosa è l’inglese”. Cittadino del mondo: nato a Montreal da madre canadese e padre ungherese, poi trasferito a Beirut fino all’inizio della guerra civile, poi a Londra dove ha compiuto gli studi, fino a Oxford. Poi la decisione di scrivere, per cui si è trasferito per qualche anno a Budapest. Tutto questo è rilevante: il protagonista di “Nella carne”, Istvàn, cresce nell’Ungheria del blocco sovietico e si trasferirà a Londra, in una parabola che riunisce peregrinazioni, ascese vertiginose e cadute disastrose. “Ho voluto fortemente che fosse un libro calato nella contemporaneità ” spiega l’autore. Ma quel che più entusiasma la critica è lo stile. Istvàn è pochissimo portato per l’autoanalisi, vive appunto “nella carne”, in una dimensione del tutto corporea; la parola che dice più spesso è “ok”, il minimo della comunicazione, la sua reazione a disgrazie e successi, amori e lutti, mentre annaspa nella propria incapacità emotiva.
Il punto è che la magia della scrittura fa sì che il lettore capisca cose di Istvàn che lui stesso non sa, e questo lavorando solo per sottrazione, un capolavoro tecnico che gioca sui non detti, su conversazioni apparentemente irrilevanti, sulle conclusioni che si possono trarre dai silenzi.
“Penso che tutto questo sia impostato già nel primo capitolo del libro, quando Istvàn ha quindici anni” dice Szalay. “E’ un adolescente. A quel punto ci sono moltissime cose della situazione in cui si trova di cui non è consapevole, mentre il lettore sì. E questo crea due livelli: da una parte ciò che lui conosce, e dall’altra ciò che il lettore osserva e capisce. La voce autoriale non esprime mai giudizi, si astiene, non suggerisce al lettore cosa deve pensare, si limita a presentare gli eventi”.
Sospeso fra Barry Lindon (ma Istvàn è molto meno arrivista, lascia che le cose gli capitino) e il protagonista dello “Straniero” di Camus (altrettanto incapace di decifrare gli umani e se stesso), in effetti questo anti-eroe potrebbe essere assimilato a tanti altri, un campione di un certo tipo di mascolinità. Szalay però dice che non era questo il suo scopo. “Capisco che la storia possa essere interpretata in quel modo, ma mentre la scrivevo non era in cima ai miei pensieri. Ho cercato intensamente di rendere qualcosa di molto specifico e concreto. Si tratta solo di una persona, anche se ovviamente speravo che potesse avere risonanze più ampie, che avesse anche qualcosa di universale”.
Stava cercando di scrivere un libro molto concettuale quando lo ha abbandonato per “Flesh”, alla ricerca di una visione completamente diversa, e di una storia che unisse Ungheria e Regno Unito. Questo quindi è anche un libro sulla migrazione, sul vivere in realtà diverse, lingue diverse, culture diverse. Szalay però rifiuta sovrapposizioni ideologiche. “Sì, il protagonista è un migrante: si sposta dall’Ungheria all’Inghilterra, e vive, per certi aspetti, un’esperienza molto tipica del migrante. Deve ricominciare dal basso nella società, fare lavori sgradevoli, in qualche misura lottare per risalire nella società in cui è arrivato. Ma mentre scrivevo il libro ho cercato di non pensarla in termini ideologici; non volevo che idee politiche esplicite si mettessero in mezzo tra me e la storia, tra me e i personaggi, e tra il lettore e i personaggi e la storia. E penso che anche ora vorrei evitare di dargli una patina politica. Spero che il libro parli da solo come storia di migrazione”.
Vincere il Booker Prize cambia la vita? “Probabilmente un po’ sì. Ovviamente il libro arriverà a molti più lettori. Ha già ricevuto più traduzioni rispetto a prima, e quindi ci sarà un pubblico più ampio sia per questo romanzo che, si spera, anche per gli altri che scriverò in futuro. Tutto questo avrà l’effetto di cambiarmi la vita, sì. Ma credo che la vera sfida sia cercare di evitare che mi cambi come scrittore. Sono molto contento di essere già a metà di qualcos’altro, di un nuovo libro, quindi non devo iniziare qualcosa da zero. Devo solo tornare a riprendere quel libro da dove l’ho lasciato”.

