Nell’America radicalizzata e involgarita preme un’istanza di moderazione

Lo scontro in queste elezioni lo ha toccato punte estreme, con insulti vicendevoli. Trump è stato definito “fascista”, la Harris una “pazza”. Mai l’America era giunta a queste vette di volgarità.

Nella notte tra martedì e mercoledì sapremo chi è il nuovo Presidente degli Stati Uniti. È un appuntamento a cui guarda il mondo intero. Per fortuna, non avendo un partito alle spalle e nemmeno una lobby a cui rispondere, possiamo allineare con maggiore libertà i nostri sentimenti politici, orientati alla visione di una democrazia intessuta di fraternità cristiana, con le strette esigenze del momento, quando le alternative in campo si mostrano in tutta la loro angustia e povertà. Ci sentiamo più liberi perché non siamo cittadini americani e pertanto non abbiamo l’incombenza della scelta tra una vicepresidente debole e un ex presidente indecoroso. In ultimo, grazie al ministro Tajani siamo edotti circa l’intangibilità dei nostri rapporti con Washington, quale che sia il vincitore: non muta la fedeltà dell’Italia all’alleanza atlantica, né viene meno, quand’anche vincesse Trump, l’amicizia con gli Stati Uniti. Amen!

Fin qui sono i pensieri del filisteo che è in noi, ma fuori di noi, nel quadrante di questa storia che ci riguarda e ci interpella, una personale riflessione sull’America s’impone. La facciamo sulla scia di una battuta di Papa Francesco, il cui atteggiamento sulle cose del mondo costituisce un ponte sicuro tra profezia e realismo: si tratta di prendere atto che nella lotta per la Casa Bianca prevale solo lo scrupolo di stabilire quale sia il male minore. Questo è quanto, non un briciolo di più. E anche Federico Rampini, quale che sia il suo rapporto con i consigli del Vescovo di Roma, pare abbia scelto di attenersi alla regola del male minore (v. il Corriere della Sera di ieri). Veniamo a sapere così che ha votato (in anticipo) per Kamala Harris perché il ritorno di Trump spaventa – non solo lui – soprattutto per lo sdegno legato all’assalto del 6 gennaio del 2021 al Congresso di Washington.

Tutti gli osservatori mettono in evidenza il carattere devastante di queste elezioni americane. La radicalizzazione ha toccato punte estreme, con insulti vicendevoli. Trump è stato definito “fascista”, la Harris una “pazza”. Mai l’America era giunta a queste vette di volgarità, ammesso che sia però volgare parlare di fascismo quando ci si trova di fronte a un fenomeno come quello del trumpismo (da cui può discendere una contestazione chissà quanto disordinata dei risultati nel caso sancissero la vittoria della Harris). Tuttavia non è un caso che Rampini – ancora lui – abbia confessato di aver fatto ricorso al voto disgiunto, optando per l’opposizione repubblicana al Congresso. A suo parere una forma di equilibrio, di questi tempi e con questi politici, va salvaguardata a tutti i costi.

È probabile che sia la preoccupazione di molti americani. Ecco, mentre si proclama la scomparsa del “centro” dalla dinamica elettorale, un surrogato di questo “centro” lo si scopre nel rifugio offerto proprio dallo “split vote”. Non bisogna trascurare questo fatto. In Italia s’afferma l’arma dell’astensionismo, negli Stati Uniti l’astuzia degli elettori in cerca di un equilibrio che l’offerta politica sostanzialmente disconosce. Ebbene, nelle pieghe di una polarizzazione poco entusiasmante, conforta che la candidata democratica si proponga come Presidente di tutti gli americani. È l’intonazione giusta, specie se espressiva di un impegno limpido e coerente. Dunque, con lei alla Casa Bianca potrebbe avviarsi una nuova stagione di pacificazione nazionale. Sarebbe il riscatto dell’America migliore, quella che resta nei cuori e nelle menti di tutti i democratici del mondo.