Roma, 29 set. (askanews) – Un incontro, un pranzo e soprattutto una conferenza stampa: la visita del premier israeliano Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca non sembra voler concludersi senza un annuncio e difficilmente Donald Trump si accontenterebbe di qualcosa di meno di un accordo per mettere fine al conflitto a Gaza – soprattutto dopo l’ottimismo espresso pubblicamente più volte negli ultimi giorni.
Ed è certo che per Trump si tratterebbe di una svolta positiva: gli regalerebbe un successo diplomatico notevole che – almeno nel breve termine – eclisserebbe gli insuccessi sul fronte russo-ucraino, oltre a gettare le basi per una stabilizzazione del Medio oriente concordata anche con i Paesi arabi, nel quadro dell’allargamento degli accordi di Abramo; inoltre, potrebbe disinnescare anche la potenziale (e ormai imminente) crisi della flottiglia degli aiuti umanitari. Fuori dall’Oval Office, la realtà tuttavia è più complessa: a spingere per un’intesa sono ovviamente i familiari degli ostaggi israeliani, che si sono rivolti allo stesso Trump in una lettera in cui lo hanno ringraziato per i suoi sforzi invitandolo a “non arretrare di fronte a qualsiasi tentativo di sabotare l’intesa”.
Che di certo non mancano: prima ancora di Hamas – che non è ancora stata informata dei termini dell’accordo – è l’ultradestra israeliana che preme per continuare il conflitto e per procedere con l’annessione della Cisgiordania: i leader dei coloni hanno incontrato Netanyahu prima della partenza per Washington e gli hanno ribadito il messaggio, “no allo Stato palestinese, sì all’annessione”. Dal lato arabo, esiste un’adesione di massima ma non è chiaro se il premier israeliano – che avrà il vantaggio di essere l’ultimo a vedere Trump – insisterà per dei cambiamenti dell’ultim’ora, come la partecipazione dell’Anp e il rifiuto di uno Stato palestinese, che i Paesi arabi considerano delle linee rosse.
Rimane poi il nodo di Hamas: come detto, non sarebbe stata informata sul contenuto della proposta in ventuno punti, anche se l’intesa prevede la possibilità di una sua applicazione parziale anche in assenza del via libera dell’organizzazione; e senza la liberazione degli ostaggi, sembra difficile che Israele possa a sua volta accettare. L’ultimo scoglio poi è proprio Netanyahu: le circostanze politiche e personali che lo hanno portato a proseguire una guerra ad ogni costo non sono certo cambiate. Il suo governo dipende sempre dal sostegno dell’ultradestra, la sua permanenza al potere dal proseguire una guerra che gli eviti il redde rationem non solo di quanto accaduto il 7 ottobre, ma soprattutto dei tre processi per corruzione che lo vedono imputato.
Su questo punto si intravede però la possibilità di una svolta che potrebbe facilitare non poco il sì di Israele – vale a dire, di Netanyahu – ad un accordo: il presidente israeliano Isaac Herzog ha fatto balenare la possibilità di una grazia per il premier, “considerando che cosa sia meglio per il bene dello Stato”; il che in questo caso coincide con quanto sia meglio per Netanyahu.
Se tutte le tessere del rompicapo andranno a posto lo si vedrà stasera: una roadmap concordata sarebbe quanto meno una base solida su cui costruire in vista di un’applicazione degli eventuali accordi che si preannuncia tutt’altro che semplice.