Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Gaël Giraud
Le Scritture ci invitano a prenderci cura del creato: «Dio vide che era cosa buona» (Gen 1). Noi sappiamo che esso è anche fragile: il nostro modo di vita, di produzione, di consumo, ereditato dalla seconda rivoluzione industriale, non è compatibile con il rispetto della creazione, in particolare con la finitezza delle risorse energetiche fossili e con la lentezza di riproduzione delle energie rinnovabili. Le Conferenze episcopali della Germania e della Francia ci stimolano con decisione a prendere parte alla straordinaria conversione cui ci convoca la sfida energetica. Conversione a uno stile di vita sobrio nell’ambito di un’economia non carbonica e di istituzioni giuste, attente ai più poveri. Certo i piccoli gesti della vita quotidiana sono indispensabili: consumare (molto) meno carne (rossa), non bere più acqua imbottigliata, allevare api in giardino, non viaggiare più in aereo, sostituire i computer da scrivania con pc portatili, non cambiare l’acqua della piscina tutte le settimane ecc. Ma questo non basterà a frenare il riscaldamento. Tanto più che una parte dei nostri consumi energetici sono obbligati: chi non ha un’auto per andare al lavoro o ha un’abitazione mal coibentata non può “soltanto” andare in bicicletta o infilarsi un maglione… La transizione ecologica è il processo grazie al quale le nostre società potrebbero passare da un’organizzazione economica incentrata essenzialmente sul consumo di energie fossili, che ha fra i suoi sottoprodotti emissioni massicce di gas serra, a un’economia sempre meno energivora e inquinante. Essa probabilmente sta ai prossimi decenni come l’invenzione della stampa sta al XV secolo o la rivoluzione industriale ai secoli XVIII e XIX . La generazione che arriva oggi all’età adulta porta una responsabilità storica: o riesce a innescare questa transizione (almeno nei Paesi di antica industrializzazione) e se ne parlerà nei libri di storia di fine secolo; o non vi riesce, e forse se ne parlerà fra due generazioni, ma in termini ben diversi! Questa transizione, ormai lo comprendiamo, rappresenta un autentico sconvolgimento della società. In qualche modo il trauma dei campi di concentramento e dei gulag ha fatto prendere coscienza a un Occidente atterrito per la perversione possibile della razionalità moderna forgiata dai Lumi. Una volta passato il tempo della ricostruzione del dopoguerra (una generazione), l’esperienza di questa possibile perversione ha gettato un dubbio radicale su ogni forma di utopia “illuminata”, sia essa la democrazia repubblicana o il “socialismo” collettivista. Vi si può probabilmente leggere una delle origini della disaffezione nei confronti delle grandi istituzioni (lo Stato in primo luogo, ma anche la Chiesa), divenuta palpabile dagli anni Settanta e di cui la caduta del muro di Berlino nel 1989 potrebbe essere un tardivo nuovo volto. Di quale progetto di società disponiamo adesso, in grado di mobilitare le energie collettive, di tracciare l’orizzonte di un avvenire comune? Come abbiamo visto sopra, il messianismo della “società di proprietari” sembra essere l’unica “utopia” sventolata da certe élite economiche legate al mondo finanziario attorno al bacino atlantico (e tutt’al più in Giappone e a Taiwan). L’attualità s’incarica di mostrare quanto un simile progetto, lungi dal risolvere la “panne escatologica” delle nostre società, conduca al disastro. La transizione ecologica rappresenta un’autentica alternativa a quell’utopia.
Concretamente come si fa? Il passo più immediato è senz’altro il rinnovamento termico, che ha lo scopo di ridurre drasticamente il consumo di energia da parte degli edifici, prima voragine energetica delle nostre economie attuali. Questo primo passo sembra non porre problemi tecnici maggiori all’edilizia e all’insieme dei mestieri collegati. L’unico freno che trattiene il decollo di questo rinnovamento è la mancanza di finanziamenti. Il secondo cantiere, che tocca la seconda fonte di consumo di energie fossili, è la mobilità: aereo, auto, treno. Qui le cose si fanno molto più complicate. Non tanto a motivo dell’aereo: ci abitueremo a organizzare videoconferenze invece di attraversare gli oceani per la più insignificante delle riunioni di lavoro. Le difficoltà sorgono non appena si cerca di sostituire intelligentemente il treno all’auto e al camion: la cosa esige dei compromessi politici (da dove facciamo passare la nuova ferrovia?) e una revisione completa del nostro assetto territoriale. Ciò comporta un effettivo e completo riordino dei territori, la rivalorizzazione di una parte delle reti ferroviarie che abbiamo smontato pezzo per pezzo dopo la Seconda guerra mondiale. Occorre dunque rimettere in auge il trasporto pubblico, mentre l’urbanizzazione delle nostre città esige un ripensamento. Possiamo già anticipare che bisognerà mettere un punto finale alle periferie residenziali di villette e favorire numerose cittadine ad alta densità abitativa, irrigate da una fitta rete di trasporto pubblico e collegate le une alle altre da treni e da autobus (a basso consumo di carburante). Il treno, però, non potrà sostituire del tutto l’automobile: bisognerà sviluppare al massimo il car pooling, inventare un altro rapporto con le quattroruote. Il terzo cantiere, infine, è quello della trasformazione delle nostre modalità di produzione dell’energia: probabilmente non si potranno chiudere tutte le centrali a carbone, ma almeno bisognerà assolutamente catturare la C O 2 prodotta e investire massicciamente sulle fonti di energia non carbonica, in modo da arrivare a fare a meno del carbone (a livello europeo) e in vista di ridurre progressivamente il gas. Spingiamoci più in là. Se i prezzi delle energie fossili diventassero molto volatili, il commercio internazionale potrebbe ridursi significativamente… Nel 2008-2009 è diminuito del 30% in tre mesi: questo vuole almeno dire che il commercio mondiale può contrarsi in maniera considerevole.
La “globalizzazione” non è irreversibile. Evidentemente, nel 2008-2009 la contrazione fu dovuta agli effetti congiunti del crac finanziario sulle economie reali e dei movimenti erratici del prezzo del barile, che, abbiamo visto, furono probabilmente dettati dai movimenti dei capitali sui mercati derivati sul petrolio. Ma una fiammata del prezzo del barile fino a 200, 300 dollari, e anche più, potrebbe ben comportare la conseguenza di non avere più gamberetti thailandesi nei nostri centri commerciali a Natale. Non a causa del trasporto marittimo, per quanto esso rappresenti l’80% del trasporto internazionale: le navi consumano talmente poco carburante rispetto alla massa di merci che possono trasportare, che abbiamo ancora un margine considerevole prima che diventino troppo care. Semplicemente non andremo più a fare shopping a Port-de-Bouc, dalle parti di Marsiglia. E il camion che trasporta i nostri prodotti quotidiani da Port-de-Bouc al centro commerciale del nostro quartiere, quello sì che è troppo assetato di petrolio. E, oggi come oggi, non siamo in grado di fabbricare camion elettrici che viaggino veloci e trasportino grandi quantità di merci su lunghe distanze. Molte aziende l’hanno già capito perfettamente, e spostano i loro stabilimenti vicino ai porti marittimi per minimizzare i costi del trasporto. Se si dovesse operare di nuovo una regionalizzazione del commercio internazionale, gli europei dovrebbero anche reimparare a produrre in prima persona una parte dei prodotti, per i quali l’importazione sarebbe diventata troppo onerosa. E questo comporterebbe una reindustrializzazione delle nostre economie.
E l’agricoltura? Un riassetto del territorio con piccole città molto dense e costi di trasporto elevati porterebbe a una nuova valorizzazione della poli-agricoltura attorno a tutti questi centri urbani. Buona notizia: sarà l’occasione di mettere fine all’eccessiva specializzazione agricola.