Ieri Zingaretti ha comunicato la nomina di Michele Meta, ex parlamentare di Roma, a capo della sua segreteria politica. In parallelo, dopo l’uscita di Landini, ha inteso esprimere l’adesione del Pd alla proposta di un nuovo patto per il lavoro lanciato dal leader della Cgil. Due atti differenti e apparentemente scollegati – l’uno ha una valenza tutta interna, l’altro incide sulla scena politica generale – tracciano le coordinate dell’ultimo aggiustamento di linea del Pd. In qualche modo vanno letti insieme, per decifrare le vere mosse del partito che doveva essere, secondo le speranze o le ambizioni dei fondatori, il grande coagulo del riformismo plurale, associando il contributo laico socialista a quello cattolico democratico.

Sul primo aspetto, sembra innanzi tutto consolidarsi la tendenza a fare dei rapporti con la Cgil il perno della “politica sindacale” del Nazareno. Nell’intervista a “Repubblica”, si può notare come Landini abbia messo da parte l’appello all’unità sindacale. Ne aveva fatto il cavallo di battaglia appena eletto alla guida della Cgil, tanto da suscitare l’improvvisa e finanche entusiastica  approvazione di Annamaria Furlan. Poteva essere un elemento di rimobilitazione degli iscritti delle storiche sigle sindacali (Cgil-Cisl-Uil) in chiave di superamento di vecchi schemi, ma non se ne ha più traccia.

Landini, per giunta, inserisce nel suo colloquio con l’autorevole quotidiano romano la richiesta di abolizione del job act. Questo punto, in effetti, è molto delicato. Mentre appare ragionevole sollecitare alcune correzioni o integrazioni alla legge varata dal governo Renzi, ben sapendo che la sua debolezza sta principalmente nella mancanza di risorse collegate all’accompagnamento del disoccupato nella transizione da un lavoro all’altro, non è convincente mettere sul tavolo la pura cancellazione del provvedimento. In questa maniera la Cgil torna nel guscio del conservatorismo di stampo classista e il Pd,  plaudendo a Landini, finisce per adombrare un suo distacco dalle forze più innovative e dinamiche del sindacato. Cisl e Uil rimangono fuori dall’orizzonte del centro sinistra?

In ultimo, come si accennava in apertura, balza in evidenza la nomina di Meta, un dirigente di sperimentate qualità, ma nondimeno espressione di quel vecchio “modello Roma” che i principali attori della stagione di Rutelli e Veltroni, a partire dallo stesso Zingaretti, avevano da tempo classificato come un esperimento datato, con aspetti positivi e negativi, circoscritto perciò a un determinato ciclo della vita amministrativa e politica della Capitale. Questa nomina trasmette allora un messaggio che sa di (involontaria) restaurazione di un certo egemonismo del quadro militante e dirigente uscito dalle file del Partito comunista, per altro negli anni che ne avrebbero segnato, come si dice, l’inizio della fine.

Cosa manca all’appello per dare il tocco conclusivo a un poco entusiasmante deja vu? Manca probabilmente il tentativo di adattare su misura la dialettica interna, chiamando sul palcoscenico donne e uomini capaci di esercitare una funzione di adornamento dell’immagine complessiva di partito, senza perciò condizionare, per parte loro, i processi di elaborazione della volontà politica.

Sotto questo profilo l’area degli ex popolari, da Franceschini a Guerini, è soggetta al rischio di un suo svilimento qualora si appalesasse un’operazione di tipo strumentale, con l’intento  di selezionare gli interlocutori sulla base di un principio di simpatia e affidabilità. Bisogna che scatti l’allarme. Ciò che mina la credibilità degli ex popolari, sempre più preziosi dopo gli abbandoni di Renzi e Calenda, mette a repentaglio la credibilità dell’intero partito. Qualche sondaggio, con le Sardine in campo, stima il Pd in forte caduta (addirittura al 13 per cento). Nell’aria si avverte un’ansia collettiva di rompere assetti ed equilibri, non si sa bene per andare dove, se verso un ispessimento o una riduzione della capacità di presa del populismo. Ira, anche i fautori di un nuovo centro possono tuttavia temere che gli arretramenti del Pd, così leggibili nelle recenti opzioni di Zingaretti, comporti un’ulteriore crescita dei fattori di instabilità, favorendo di fatto l’arrembaggio della destra. Non è una prospettiva da prendere alla leggera, magari con l’illusione di trarre utili, secondo il banale calcolo degli imbalsamatori di un centrismo senza storia, dal possibile cedimento strutturale dell’unico partito in grado di rappresentare oggi una forma libera e democratica di partecipazione alla vita pubblica del Paese.