L’impresa del visionario Olivetti cercò per finanziare la ricerca sponde governative, ma la richiesta restò lettera morta. Anche il sistema industriale italiano, non ancora pronto all’automazione, guardò con diffidenza al progetto.
Domenica 8 novembre 1959 nella sede della Olivetti di via Clerici a Milano, Adriano Olivetti pronuncia un discorso davanti al Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi presentandogli la Elea 9003, il primo computer costruito in Italia, un grande momento non soltanto per la Olivetti ma per l’intera società italiana che entra così, per prima in Europa, nell’era dell’elettronica. Erano passati 10 anni da quando Enrico Fermi aveva fatto visita alla fabbrica di Ivrea, dove testimoniò come la calcolatrice elettronica fosse in quel momento il grande problema che appassionava i ricercatori delle università americane e delle grandi aziende di macchine da ufficio (IBM, Hewlett Packard). Negli Stati Uniti, usciti più forti dopo gli sforzi tecnologici degli anni di guerra, viveva Dino Olivetti, il fratello minore di Adriano, sensibile ai venti del cambiamento in un Paese che stava inaugurando una nuova forma di imperialismo. Nello stesso 1949 la Olivetti assume Michele Canepa, un ingegnere che poi trasferisce negli Stati Uniti per capire se l’azienda di Ivrea può avere una propria chance nella produzione di una calcolatrice elettronica: è sempre più chiaro che il futuro delle macchine da ufficio – il vero core business anche per la Olivetti – passa da lì.
Dopo un paio d’anni Canepa torna a Ivrea e relaziona a Olivetti sulla situazione americana. Adriano si fa l’idea che la complessità della ricerca e la natura degli investimenti richiede la collaborazione dello Stato e almeno di una università.
Nel 1952 Dino Olivetti, che col fratello maggiore ha sempre avuto un rapporto di collaborazione, pur con diverse fasi conflittuali, costituisce una divisione elettronica a New Canaan, Connecticut, vicino a New York, dove risiede. Chiede ad Adriano di avere Canepa a sua disposizione. Insieme lavorano su diversi progetti, anche applicativi, come la gestione informatica dei conti bancari, senza tuttavia arrivare a un risultato soddisfacente. Nel 1954 Roberto Olivetti, figlio maggiore di Adriano, arriva ad Harvard per un MBA (Master of Business Administration). È la terza generazione di Olivetti che va a studiare un mondo nuovo: Camillo ci andò per la prima volta nel 1893, Adriano nel 1925, ora è la volta di Roberto che, con Canepa e Dino, capisce che bisogna focalizzarsi su un solo progetto di sviluppo industriale ma che è più conveniente aprire un laboratorio di ricerca in Italia. Non si vuole però chiudere New Canaan. In una situazione di stallo “l’uomo della provvidenza” è Mario Tchou, presentato a Olivetti da Guglielmo Negri, suo compagno di scuola al Tasso, il liceo classico romano che fu una fucina di classe dirigente nell’Italia del dopoguerra. Tchou è figlio di un diplomatico cinese presso la Santa Sede che poi decise di rimanere a Roma. Mario sa unire le competenze di uomo di scienza a quelle di manager, è negli Stati Uniti dal 1945, e in quel momento è professore associato di ingegneria elettronica alla Columbia University.
L’incontro con Adriano Olivetti avviene a New York nell’agosto 1954. Questi gli propone di aprire per conto della Olivetti un laboratorio di ricerca in Italia, ma ad affiancarlo nelle scelte e nel proteggerlo da una buona parte dell’azienda sospettosa verso l’elettronica, sarà poi Roberto Olivetti. La Olivetti stringe un accordo con l’università di Pisa che non investe molti denari nel progetto ma è un partenariato importante, così come partecipano finanziariamente il comune e la provincia di Pisa e altre provincie toscane. Nasce il Laboratorio di Ricerche Elettroniche Olivetti. È il 1955 e sui principali quotidiani appare un’inserzione in cui si cercano tre terne di ingegneri elettronici e una terna di fisici elettronici “allo scopo di potenziare e sviluppare gli uffici studi e progetti e i laboratori di ricerca. Si richiedono: seria preparazione scientifica e tecnica, vivi interessi ai problemi relativi alle calcolatrici elettroniche, predisposizione ad eventuale temporaneo trasferimento all’estero per approfondimento preparazione”. È lo stesso Tchou a incontrare i candidati e a selezionare una dozzina di elementi che costituiscono il primo nucleo di ricercatori e a cui si aggregano un paio di canadesi.
Il laboratorio trova sede in una villa liberty a Barbaricina nella periferia di Pisa. Si lavora sulla Macchina ridotta e sulla Macchina Zero, entrambe dotate di valvole termoioniche. Nel frattempo sta nascendo negli USA la tecnologia dei transistor e Adriano, per colmare il gap tecnologico, suggerisce di acquisire una licenza da una azienda americana.
Il 24 dicembre 1955 Adriano Olivetti riunisce i lavoratori nel Salone dei Duemila di Ivrea. È giunto il momento di mettere un punto dopo anni di tumultuosi sviluppi. L’Ingegner Adriano si sofferma su un nuovo comparto: “una nuova sezione di ricerca potrà sorgere nei prossimi anni per sviluppare gli aspetti scientifici dell’elettronica, perché questa condiziona nel bene e nel male l’ansia di progresso della civiltà di oggi. Noi non potremo essere assenti da questo settore per molti aspetti decisivo”. E aggiunge, per tranquillizzare chi lo ascolta: “le calcolatrici elettroniche non sostituiranno, almeno per molto tempo, né le addizionatrici, né le calcolatrici meccaniche. Esse si aggiungono soltanto a render possibile l’esistenza efficiente dei grandi organismi e procurare a tecnici ed operai italiani nuove occasioni di lavoro”.
La Olivetti cerca, per finanziare la ricerca, sull’esempio americano ma a quel punto anche britannico, sponde governative ma la richiesta resta lettera morta, così come il sistema industriale italiano, non ancora pronto all’automazione, guarda con diffidenza all’esperienza dell’azienda di Ivrea, una costante negli anni in cui Adriano ne è alla guida. Nel 1956 si firma la convenzione con l’Università di Pisa, che ha forse più un valore di riconoscimento formale che una reale efficacia operativa. In ogni caso il primo gruppo di ricercatori si è messo al lavoro. Nei primi due anni si va per tentativi lavorando contemporaneamente alla Macchina ridotta e alla Macchina zero.
Continua a leggere
https://www.doppiozero.com/materiali/olivetti-il-primo-computer-italiano