Impercettibilmente, nella distrazione dei più, la crisi ha conosciuto in queste ore una sua mutazione. Potremmo definirla la “variante quirinalizia” perché da quando le dimissioni di Conte sono state ufficializzate al Quirinale, il confronto tra i partiti ha piegato nella direzione di un faticoso riordinamento, meno accelerato del previsto. Mattarella non vuole perdere tempo, ma nemmeno bruciare le tappe di quel necessario chiarimento che solo prelude alla soluzione del problema di quale governo possa uscire dal duro contenzioso in atto. Al Colle le consultazioni inizieranno oggi pomeriggio e andranno avanti senza precipitazione, nell’arco di tre giorni, così da favorire l’auspicato raffreddamento delle tensioni. Secondo la “variante quirinalizia” i tempi sono subordinati alla politica, quindi avanzano al ritmo che può scandire unicamente l’intelligenza dei veri costruttori.
Si tratta innanzi tutto di capire se ancora esistono i margini per ricomporre la maggioranza, magari con qualche contributo aggiuntivo. L’intervento del ministro Guerini, in concomitanza con le dimissioni del Presidente del Consiglio, hanno fatto intuire tra le righe che lo stesso Mattarella considera inderogabile il tentativo di riportare Italia Viva nel perimetro della compagine di governo. L’ipotesi di sostituire il drappello renziano con l’europeista Ciampolillo e pochi altri, continuando a giocare con il pallottoliere delle adesioni e dei dinieghi, appare un esercizio pericoloso. Realisticamente, con l’occhio rivolto all’interesse del Paese, il Capo dello Stato accompagna come suo dovere costituzionale il processo di ricomposizione dell’unica maggioranza possibile. L’alternativa delle elezioni anticipate resta confinata nell’angolo, benché Salvini e Meloni s’impegnino a proporla con enfasi stucchevole, al netto delle titubanze di Berlusconi. Per questo il “quirinalizio” Guerini ha forzato i termini, andando alla sostanza delle cose e fissando i paletti di una riconciliazione invero complicata ma non eludibile: la pace con Renzi, e quindi la formazione di un esecutivo capace di portare a termine la legislatura, passa per la conferma di Conte a Palazzo Chigi.
Di chi la vittoria, in questo caso? Piero Ignazi rovescia la domanda e punta l’indice sul partito che all’occorrenza potrebbe pagare il conto più salato. Scrive infatti sul “Domani” in edicola stamane che la ricucitura della maggioranza, con la baldanzosa rentrée di Renzi, sancirebbe la sconfitta del Pd e la sua sostanziale irrilevanza. È una tesi molto severa. Ignazi prevede addirittura che un esito siffatto della crisi darebbe agio all’ex sindaco di Firenze, con l’alloro del trionfatore in testa, di puntare a una nuova scalata del Pd a seguito della liquidazione del gruppo dirigente raccolto attorno alla mesotermica segreteria Zingaretti. Si tratta in buona sostanza di uno scenario rovinoso, decisamente pessimistico e nondimeno sintomatico di una certa insolvenza politica a carico dell’ultimo gruppo dirigente formatosi al tramonto della Prima Repubblica nella Federazione dei giovani comunisti, poi trasformata in Sinistra giovanile. Non a caso la partita della crisi porta allo scoperto una contestuale rianimazione della filiera democristiana, non per volontà di protagonismo ma per riscontro di attenzioni, come se il Paese andasse alla ricerca di un centro perduto o piuttosto di un centro operante suo malgrado.
È palese che questo doppio movimento tra ex dc ed ex pci determini la fibrillazione del “muscolo cardiaco” del riformismo, ovvero dell’organo politico che ne rappresenta l’ambizione e la speranza proprio in virtù, occorre dire, della tentata simbiosi di culture a vocazione popolare, parallele ed affini per molti versi, ma storicamente rivali. Pensare che si deroghi a questo interrogativo sul destino del Pd con lo scivolamento nel pragmatismo, eludendo perciò le questioni ideali che attraversano il dibattito a latere di questa crisi di governo, aumenta il rischio di un indebolimento complessivo della politica democratica ed europeista, per la quale si ricerca in ogni caso la formazione di una maggioranza alternativa al sovranismo. Ignazi può avere torto nel drammatizzare le difficoltà del Pd, specie se le configura nei termini della classica polemica sul tradimento dei valori della sinistra e quindi con l’implicita richiesta di una maggiore radicalizzazione a sinistra, ma getta un raggio di luce sulla tenuta di un partito che vive da sempre nell’ibridismo di aspettative e vocazioni concorrenti. Una volta risolta la crisi di governo, speriamo in tempi brevi e con la dovuta credibilità, anche questa crisi sotto traccia del Pd esigerà un approfondimento rigoroso. E una soluzione.