La casa editrice Liberi Libri presenta questo ‘libello’ come un lavoro redazionale composto con l’ausilio dell’I.A.: per provare a seguire ed applicare l’innovazione anche al contesto narrativo, poiché l’avanzare inarrestabile della tecnologia impone adeguamenti negli stilemi espressivi e linguistici.
Tre suggestioni
Leggendolo ho evocato a me stesso tre suggestioni personali.
La prima: reduce da un ricordo di Alda Merini nell’anniversario della sua scomparsa avevo concluso il mio amarcord con una frase estrapolata dall’intervista (l’ultima della sua vita) che la poetessa mi aveva concesso nella sua casa dei Navigli. “Cosa può renderci migliori, più buoni?“, le chiesi. “Il perdono – mi rispose – come sentimento più alto”. Parole nobili che ho subito comparato al titolo del libro che mi accingevo a leggere e che prima ancora di iniziarlo suscitava inevitabili interrogativi in termini di suggestiva comparazione.
La seconda: con lo scorrere delle pagine ho piacevolmente trovato conferma e conforto ad un assioma di cui mi sono sempre fatto convinto assertore e che riguarda – nelle alterne vicende della vita, nei comportamenti del genere umano e nel giustificazionismo che copre le mistificazioni spesso implicite nella ‘lettura’ delle cose – la differenza che corre tra la teoria e la pratica. La prima suggerisce in genere principi etici ed affermazioni generaliste a cui dovremmo attenerci, ovvero le regole del politicamente e del socialmente corretto. La seconda descrive – spesso impietosamente – i cascami non sempre coerenti con tali enunciazioni, perché rappresentano la declinazione in atti, comportamenti, realtà tangibili di assiomi nobilitati sovente dalla retorica che non considera che l’antropologia descrive senza giudicare. La nostra quotidianità e i suoi contesti esistenziali devono invece tener conto di dissonanze e distonie tra la teoria che illumina di buoni propositi una realtà che ne rappresenta la concreta applicazione, con tutti i suoi impliciti non sempre ad essa coerenti e speculari.
La terza: leggendo il saggio – fin dalle prime pagine – mi è venuto da pensare ad una riflessione che avevo scritto per la rivista ‘Diritto Penale e Uomo’ sulla lunga indagine epistemologica che Pierre Bourdieu aveva dedicato al concetto di ‘violenza simbolica’. Un tema interessante che apre ad argomentazioni intorno alla distinzione con la violenza fisica, evidenziando come il simbolismo sia più sottile ma altrettanto pervasivo della descrizione dei comportamenti umani e spesso sia insito nell’ordine stesso delle cose, alla stregua di un elemento costitutivo e consustanziale della realtà. Sono stato gratificato – verso la parte conclusiva del ‘libello’- dall’esplicito riferimento a Bourdieu e alla sua argomentata analisi della violenza simbolica, una citazione non casuale ma strettamente e logicamente legata a doppio filo al tema del saggio redazionale, a cominciare dal suo impattante titolo. “In molte democrazie occidentali, la repressione delle emozioni negative si è intrecciata con l’espansione del controllo simbolico”.
Il rischio di luoghi comuni
Il saggio redazionale affronta fin da subito l’equivoco che sta alla base di un’idea che circola come resa implicita e persino logica nell’immaginario collettivo e cioè che “l’odio debba essere sempre oggetto di correzione, un errore psichico da curare, un rischio sociale da neutralizzare, una devianza etica da riportare nell’alveo di una convivenza pacificata”.
L’incedere del ragionamento non è a questo punto orfano di una convincente suggestione sulla quale la riflessione ricorrente è infarcita di luoghi comuni e frasi fatte.
A cominciare dalla incrementale frequenza con cui – trattando di coscienza, di temi sociali e di relazioni umane – il termine ‘inclusione’ viene usato fino all’abuso, ammantandolo di una prospettiva salvifica dell’umana convivenza. Non è così: troppo spesso la retorica del dover essere prende il posto della constatazione della realtà, fino a diventare l’alibi per un discrimine tra buoni e cattivi comportamenti.
Sovente non si considerano le conseguenze pratiche dell’abuso della retorica.
Il sentimento dell’odio fa parte della natura umana al pari di altri stati d’animo ma non pare antropologicamente corretto ricondurlo ad una sorta di patologizzazione sistematica: non è certo una virtù ma neppure un reato, fino a quando non degenera in azioni di violenza e dannose per il prossimo.
L’odio come repulsione
In una società malata di sindrome da risarcimento l’odio viene giudicato e punito in quanto emozione effimera, senza che produca conseguenze discriminatorie attraverso comportamenti deleteri.
“Viviamo in un’epoca che ha trasformato la sensibilità in un valore assoluto e l’empatia in un criterio quasi esclusivo di legittimità morale”. Storia e letteratura, arte e pensiero non hanno mai descritto e narrato un modello di ‘società etica’ perfetta o perfettibile, perché di sentimenti negativi è piena ogni considerazione retrospettiva. L’odio come ‘repulsione’ è uno stato d’animo legittimato dalla libertà di pensiero e di parola, nel porsi di fronte alla realtà, ma è sempre essenziale distinguere tra odio come emozione e odio come istigazione all’aggressione. La cultura pubblica finisce per produrre una sorta di sorveglianza orizzontale in cui ciascuno è sostanzialmente invitato a denunciare ogni deviazione emotiva.
Ma una società che vieta le emozioni negative non diventa automaticamente più civile, diventa più fragile e meno capace di confrontarsi con la complessità. La cd. ‘cancel culture’ è un processo carsico che induce l’autocensura preventiva. Si comincia con la rimozione delle parole, si prosegue con la sorveglianza delle intenzioni, si finisce con la patologizzazione delle emozioni. Anche chi si accingesse alla lettura di questo saggio con una sorta di ritrosia preconcetta – il titolo può suscitare questa sensazione – dovrebbe alla fine concludere che l’intendimento del libro non è stimolare stati d’animo inclini all’odio, bensì comprenderli come parte di un’antropologia della conoscenza che riconosca ogni sentimento umano come espressione di libertà.
L’assassinio di Charlie Kirk
L’ultimo paragrafo, dedicato alla vicenda di Charlie Kirk, assassinato il 10 settembre 2025 all’Università dello Utah dimostra un tragico paradosso: un uomo che difendeva con tanta forza la parola viene annientato da un gesto che nega la parola stessa. Questo evento tragico è l’epifenomeno dell’odio che diventa violenza, degenerando: come in passato proprio negli Stati Uniti era accaduto con la morte di John e Robert Kennedy e di Martin Luther King. Ci sono implicazioni antropologiche evidenti in questi fatti, come recentemente per Kirk e serve interrogarsi sulle reciproche influenze tra sentimenti collettivi generalizzati e loro declinazioni in pulsioni individuali. Il rapporto tra oggettività dei fatti e soggettività di cause ed effetti è sempre attualizzato e foriero di approfondimenti e spiegazioni.

