Nell’ultimo libro di Paolo Mieli (Fiamme dal passato. Dalle braci del Novecento alle guerre di oggi, Rizzoli) c’è un ampio paragrafo dedicato alla Dc. Come ricorda l’autore, è stata una delle forze politiche più influenti e longeve nella storia italiana. Nata nel 1943-1944, ha guidato con sapienza la rinascita democratica e la ricostruzione postbellica del Paese. Eppure, a poco più di 80 anni dalla fondazione e a 30 dallo scioglimento, nei media ‘mainstream’ se ne parla assai poco. “C’è ancora una sorta di leggenda nera”, conferma l’autore. Colpa forse del nostro sistema politico, “che dall’unità d’Italia a oggi ha prosciugato chi lo ha retto. Il potere forse, al contrario di quanto diceva Andreotti, logora anche chi ce l’ha”.
Anche nella ricerca storica ci si è a lungo soffermati soprattutto sui leader scudocrociati e sull’attività di governo, trascurando gli aspetti organizzativi del partito che ha plasmato l’Italia del dopoguerra. Un merito importante della Dc è quello di essere stata, almeno fino alla metà degli anni ’60, il primo canale di formazione di una nuova classe dirigente (che è espressione più ampia del personale politico). Come spiega l’autore, “soprattutto con il fallimento del centrosinistra, l’appeal innovatore viene meno proprio mentre nella Chiesa si inizia a parlare di riforma. Per questo dopo il Concilio buona parte delle nuove generazioni di cattolici sceglie di non entrare nel partito”. Lo stretto rapporto con la Chiesa non va comunque confuso con una dipendenza dalle gerarchie ecclesiastiche. Una parte importante del gruppo dirigente, a partire dai dossettiani fino a Moro, “resiste più volte in maniera decisa al tentativo della Chiesa di ‘dare la linea’, perché si rende conto che il Paese va verso una modernizzazione che non può essere bloccata”.
Per quanto riguarda, invece, il rapporto con gli Stati Uniti “vale la grande intuizione di De Gasperi, che fin dagli anni ’30 comprende il declino della Gran Bretagna e che, a differenza di quanto proporranno i dossettiani, in un mondo diviso in blocchi non si può restare neutrali. La linea resterà quella, pur con qualche aggiustamento: Fanfani, pur essendo atlantista è attento al mondo arabo, mentre La Pira e il suo discepolo Enrico Mattei guardano con interesse al processo di decolonizzazione”.
Negli anni ’70 la Dc si adagia in quella che Ruggero Orfei definisce in un libro l’occupazione del potere. Si parla apertamente di ‘questione democristiana’, ma la classe dirigente del partito si sente al riparo da rischi e, non affrontando i problemi, rende strutturale il proprio declino. Memorabile a questo riguardo il film di Roberto Faenza Forza Italia (di cui anche Moro darà conto in una delle lettere dalla prigione del popolo) che compone il ritratto di un gruppo dirigente democristiano sostanzialmente allo sbando, soprattutto dopo il sequestro e l’assassinio dello stesso Moro e la fine traumatica del “compromesso storico”.
Un gioco che dura fino agli sconvolgimenti della fine degli anni ’80: se da una parte con il crollo del muro di Berlino viene meno il ruolo della Dc come argine al comunismo, dall’altra l’esplosione del debito pubblico e – soprattutto – il trattato di Maastricht ridisegnano l’intero contesto socio-economico europeo.
Un’esperienza analoga (l’unità politica dei cattolici) è oggi del tutto irripetibile, ma resta comunque un esempio interessante, in un’epoca di polarizzazione estrema, in cui si insiste molto sulla verticalizzazione del potere e sull’uomo o la donna “soli al comando”. In conclusione, la Dc ha saputo tenere unito il Paese in una fase storica di grande difficoltà, attraverso la capacità di mediazione, la costruzione paziente del consenso e la ricerca di itinerari condivisi. Un’immagine rovesciata rispetto alla politica attuale, ma che proprio per questo, forse ha ancora qualcosa da dirci…