Anche se fosse più adorno di buone intenzioni, l’ordine del giorno su Roma Capitale andrebbe valutato con la debita prudenza. Non ha importanza che sia stato sottoscritto da un vasto schieramento bipartisan, come di solito nelle Aule parlamentari stenta a manifestarsi. In realtà questa operazione ortopedica, illusoriamente concepita per rimettere in piedi una città traumatizzata, incapace non solo di correre ma anche solo di camminare con qualche speditezza, trasmette un senso di approssimazione e inconcludenza. Manca di respiro politico.

Ogni volta, infatti, che Roma guarda se stessa, specchiandosi nel suo incongruo particolarismo – tanto più incongruo, in verità, se commisurato al carattere universale di Roma -, scivola nel pantano delle controversie e delle rivendicazioni, senza quella ragione alta di politica e cultura che invece, nei desiderata dei proponenti, si vorrebbe pur mettere a verbale. Per giunta, quando si sconta la povertà di contenuto, viene meno il fascino dell’iniziativa. Si parla, anche nel suddetto ordine del giorno, di nuovi poteri da attribuire e perciò di nuove risorse da mettere in campo; ma poiché non si sa quali siano questi poteri, a meno di trasformare l’Urbe da Comune in Regione, contravvenendo in questo modo alla secolare battaglia per l’autonomia del Campidoglio come simbolo forte della “Italia dei Comuni”, tutto precipita inesorabilmente nella bruta richiesta di maggiori finanziamenti.

Si dirà che anche il progetto più nobile e generoso per realizzarsi ha bisogno di risorse. È vero, ma non a prescindere da un indirizzo convincente. Negli anni ‘70, grazie soprattutto a un assessore capitolino di grande preparazione, il democristiano Franco Rebecchini, la riforma della finanza locale divenne tema politico nazionale. Amintore Fanfani, nel consiglio nazionale susseguente alla sconfitta sul divorzio (1974), ne prese spunto per qualificare il rilancio dell’iniziativa politica della Dc. Rebecchini non si atteneva alle strette preoccupazioni del suo ufficio, ma lavorava d’intesa con gli amministratori suoi omologhi nell’Associazione dei Comuni. I famosi convegni di Viareggio dedicati alla questione del risanamento finanziario degli enti locali fornirono gli elementi necessari alla definizione dei cosiddetti “decreti Stammati” (1977), punto cruciale di accordo tra il Pci, ormai egemone nelle grandi città, e la Dc di Moro e Zaccagnini. Successivamente, con l’uscita dall’incertezza finanziaria, le “giunte rosse” di Argan, Petroselli e Vetere dettero impulso a politiche fortemente espansive di welfare locale come dato emblematico, in quegli anni, di una più generale evoluzione delle città italiane.

Questa felice corrispondenza tra Roma e la nazione oggi non si vede. Al contrario, l’esaltazione del ruolo di Capitale suona alla stregua di una chiacchiera da bottega, dando la stura all’immiserimento del dibattito sul ruolo dei Comuni. Non a caso l’ultima invenzione di un pensiero autonomistico senza più mordente consiste in una grezza ipotesi di lavoro, simile a ridisegno della gabella medievale, per la quale andrebbe riservato ai Comuni il dieci per cento dei fondi del Recovery Plan. La Raggi, a tal proposito, ha inteso innalzare l’asticella rivendicando ben oltre il dieci per cento e solo per soddisfare le esigenze della sua amministrazione. Tutto si tiene in questa logica di arido municipalismo corporativo. Occorre infatti riconoscere una connessione sottile ma robusta: quanto più il Campidoglio fa storia a sé, con l’enfasi riposta sulla gravosità del suo essere Capitale, tanto più la rete delle autonomie si sfilaccia o peggio ancora si consuma. Da Roma, ovvero dai difensori della sua originaria e potente dignità di civitas, sarebbe lecito attendersi una riflessione più adeguata, se del caso più aperta ed espansiva, dunque seriamente produttiva di una risposta che valga oltre l’onesto interesse di attuali e futuri amministratori cittadini.

Lo spirito di Capitale non si rinnova con la questua.