Paul Claudel, ed è subito poesia. Già il nome e il cognome, pronunciati insieme, ne hanno tutto il suono, una rarefatta atmosfera che porta il lettore a confrontarsi con l’arte poetica. I versi dello scrittore e diplomatico francese morto a Parigi 70 anni fa, hanno proprio quel fascino – tipico della poesia – che non conosce tramonto. Una sua parola diviene così luce che trapassa il cuore e tutto l’essere. Ed è stata proprio la luce di Dio a colpire l’anima poetica di Claudel.
Lo narra lui stesso: «Ero in piedi tra la folla, vicino al secondo pilastro rispetto all’ingresso del coro, a destra, dalla parte della sacrestia. In quel momento capitò l’evento che domina tutta la mia vita. In un istante il mio cuore fu toccato e io credetti». E ancora più avanti descrive l’essenza del cristiano, di tutti i cristiani: «Come sono felici le persone che credono! Ma era vero? Era proprio vero! Dio esiste, è qui. È qualcuno, un essere personale come me. Mi ama, mi chiama. Le lacrime e i singulti erano spuntati, mentre l’emozione era accresciuta ancor più dalla tenera melodia dell’Adeste, fideles».
La conversione avvenne quando non aveva ancora trent’anni, nel 1886, durante la messa di Natale celebrata a Notre-Dame a Parigi, ascoltando il canto del Magnificat. Maria porta sempre a Gesù. Ma dietro a questo turbinio di sentimenti, dietro Claudel ci sarà una filosofia della poesia, una ratio dell’illogicità poetica: un’architettura che il poeta francese aveva ben consolidato grazie non solo alle sue letture giovanili (Mallarmé, Verlaine e Rimbaud, per fare qualche esempio) ma anche grazie alla stesura di un testo chiamato proprio Art poétique: l’8 giugno 1907 per il Mercure de France il volume viene dato alle stampe. Nel suo Paul Claudel (Morcelliana, 1947), il poliedrico presbitero e critico d’arte Ennio Francia, scrive: «L’Art poétique è un punto di partenza e al tempo stesso di arrivo. L’espressione va presa ugualmente nel significato oraziano di suggerimento, di dettato, quasi una logica letteraria che giustifichi l’avventura e le sue complicazioni e in quello aristotelico in cui la dottrina del poeta nelle sue linee fondamentali è già data e alle quali le ulteriori investigazioni diversamente ritornano e riconducono».
Mirabile sintesi di ciò che rappresenta questo piccolo (non certo per i temi trattati) libretto di Claudel nella sua vita di poeta ma anche di filosofo. Forse, questo ragionare sull’arte poetica fu anche aiutato dal momento biografico in cui fu scritto: Art poétique fu redatto in Cina ai primi del Novecento. In queste pagine troviamo espressioni linguistiche assai ardimentose che toccano temi come quelli dell’antica estetica medievale e della metafisica del bello, fino ad arrivare a prendere in esame la Summa di Tommaso d’Aquino e il De ordo di Agostino. Ed è proprio con una citazione del santo d’Ippona che prende vita il libro. E una citazione presa dalla V epistola a Marcellino: Sicut creator, ita moderator. Donec universi seculi pulcritudo… velut magnum carmen ineffabilis modulatoris. Parole che spazzano via il tempo che nel concetto di bellezza si ritrova, spogliato di tutto, perché solamente Dio può essere il grande custode della bellezza e del tempo.
Le pagine dell’Art poétique non sono semplici: complesse nella loro stesura, si riempiono di rimandi acrobatici tra la Sacra Scrittura, Lucrezio, il prediletto Mallarmé e addirittura Poe. Il grande pregio del testo di Claudel è racchiuso nel suo essere quasi propedeutico alla comprensione della sua stessa poesia, una realtà fatta di forme (forme fermée), di parole essenziali che – riprendendo Agostino – non possono che nascere dalla propria esperienza di vita vissuta e che riescono a essere intellegibili solamente se ispirate da Dio. In una lettera a l’abbé Bremond sur l’insipration poétique (1927) scriverà: «Comprendiamo (nel senso poetico del termine) passando su ciò che passa. È in questo senso che la poesia libera delle cose la loro essenza pura, che è essere creature di Dio e testimonianza di Dio».