Dal partito egemonico del centrosinistra ci si aspetta la capacità di coniugare crescita economica, transizione ambientale e riduzione delle diseguaglianze. Come mai allora il Pd non ci è riuscito?
Norberto Dimore
Il Pd è sotto assedio. Alla sua sinistra è insidiato dal Movimento 5 Stelle, che lo incalza su questioni redistributive e ambientaliste, mentre alla sua destra deve tenere testa al Terzo Polo, che lo sfida sui temi della crescita economica e dell’efficienza. L’attacco concentrico contro il Pd è visto con favore e sostenuto indirettamente dalla coalizione di destra-centro. Se il Pd dovesse sciogliersi o anche solo perdere il suo ruolo egemonico nel centrosinistra, questa coalizione non avrebbe di fronte a sè sfidanti politici di peso, in grado di scalzarla dal governo. Una sinistra in cui il Movimento 5 Stelle giocasse il ruolo di perno non avrebbe un programma credibile e sarebbe destinata a una sterile opposizione. Un centro-centrosinistra guidato dalla coppia Calenda-Renzi non avrebbe nessun ancoraggio popolare e risulterebbe permanentemente minoritario. Per questo la coalizione di destra-centro vede con malcelato favore il modo in cui queste due forze hanno trasformato il centro-sinistra in generale e il Pd in particolare in un campo di Agramante.
Naturalmente la logica e il buon senso vorrebbero che il partito egemonico del centrosinistra fosse un partito in grado di coniugare in modo coerente crescita, transizione ambientale e riduzione delle diseguaglianze. Sulla carta il Pd, per la sua natura e per la sua storia, dovrebbe essere questa forza.
Come mai allora non è riuscito a far passare questo messaggio? Certo, l’assenza di alleanze che potessero far vincere il centrosinistra ha avuto un effetto smobilizzatore. Inoltre, la divisione in correnti sempre più autoreferenziali e molto fameliche in posti di potere è anch’essa un’importante determinante dell’insuccesso del Pd. Ma questi fattori, per quanto importanti, spiegano solo in parte la crisi che sta attraversando il Partito democratico. A mio avviso c’è un elemento ancora più importante, legato allo iato che si è creato tra le priorità annunciate e quello che il Pd è riuscito effettivamente a realizzare. È questa disconnessione che ha allontanato progressivamente l’elettorato popolare dal partito e aumentato l’insoddisfazione dei militanti. Per ridurre questo iato e riacquistare credibilità, il Pd deve affrontare e risolvere due problemi fondamentali: il primo è retrospettivo mentre il secondo è di prospettiva.
Partiamo dal problema retrospettivo. Se il Pd vuole che il suo approccio comprensivo ai problemi del Paese sia credibile, deve fare i conti con il suo passato. Se si fa un consuntivo dei suoi quindici anni di esistenza (di cui dieci al governo), il Pd ha certamente al suo attivo una gestione oculata della politica economica. Nel periodo della crisi del debito sovrano, il suo appoggio alle politiche del governo Monti è stato essenziale per evitare l’arrivo della Troika in Italia. Così come il fatto che guidasse il ministero delle Finanze nel governo Conte II ha fornito le rassicurazioni necessarie per convincere gli altri Paesi europei a varare Next Generation Eu. Infine, il sostegno convinto all’agenda Draghi ha contribuito a far sì che il Paese si riprendesse rapidamente dallo shock della pandemia. In questi quindici anni il Pd è stato dunque un buon partito pompiere.
Se il Pd presenta un bilancio positivo nella gestione macroeconomica del Paese, non è però riuscito a far uscire l’Italia dalla stagnazione in cui si trova da più di due decenni. La massa critica delle riforme per le quali viene ricordato (nel bene e nel male) hanno avuto luogo durante il governo Renzi, come Industria 4.0, che fu una riforma che ha aiutato l’industria italiana. Tuttavia, il Pd può solo parzialmente appropriarsene perché i due principali protagonisti (Renzi e Calenda) sono scappati con la palla (copyright di Renzi). Altre riforme come quelle della pubblica amministrazione e dell’istruzione non hanno prodotto i risultati desiderati, deludendo importanti constituencies del partito. Il Jobs Act ha reso più flessibile il mercato del lavoro, adattandolo alle trasformazioni intervenute nel sistema produttivo italiano. Tuttavia, è stato anche un vulnus a tutt’oggi non rimarginato sia con i sindacati sia con una parte significativa del mondo del lavoro dipendente. Se si voleva evitare questa frattura, si sarebbe dovuto introdurre in parallelo misure vigorose volte a ridurre le diseguaglianze e a fornire tutele alle fasce più deboli della popolazione. Il bonus degli 80 euro andava in questa direzione, ma era ampiamente insufficiente. Inoltre, in alcuni momenti, il governo Renzi andò addirittura nella direzione opposta, per esempio con l’abolizione della tassa sulla prima casa, una misura populista con effetti regressivi sul sistema fiscale, che indebolì la credibilità del Pd sulla questione cruciale dell’equità fiscale.
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