Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Roberto Righetto

L’ultimo in ordine di tempo è stato Michel Onfray, notissimo filosofo ateo d’Oltralpe: nel suo ultimo volume, Theorie de la dictature, come segnalato da Giulio Meotti sul «Foglio», fa il verso alla Chiesa cattolica e se la prende con la teoria del gender, «una rivoluzione ideologica che vuole annichilire la natura», paventando l’avvento di una società che «pratica il linguaggio unico, cancella il passato e riscrive la storia». In un articolo sul «Nouvel Observateur» poi, Onfray ha scritto che è in corso oggi un conflitto «fra chi afferma che il corpo e la carne non esistono, che gli esseri umani sono solo archivi culturali, che il modello originale dell’essere è l’angelo, il neutro, l’asessuato, la cera malleabile, l’argilla priva di sesso da plasmare sessualmente, e chi sa che l’incarnazione concreta è la verità dell’essere che viene al mondo».

Qualche mese fa era stato lo scrittore Michel Houellebecq, in un’intervista al settimanale tedesco «Der Spiegel», a parlare di «un curioso ritorno del cattolicesimo», sposando poi con forza nel suo ultimo romanzo Serotonina, pubblicato in Italia da La nave di Teseo (Milano, 2019, pagine 332, euro 19) «il punto di vista di Cristo, il suo ripetuto irritarsi di fronte all’insensibilità dei cuori, il suo dare la vita per i miserabili». 

Ora è un altro filosofo esplicitamente non credente, François Jullien, a sorprendere con il suo libro da poco tradotto in italiano col titolo Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede (Firenze, Ponte alle grazie, 2019, pagine 120, euro 14). 

Assai conosciuto per i suoi lavori sullo scarto fra la cultura occidentale, segnata dalla Grecia, e quella cinese, ora riapre al cristianesimo come punto essenziale per la cultura europea e lo fa rileggendo il Vangelo di Giovanni. Un po’ come aveva fatto Emmanuel Carrère con quello di Luca: ma se  Il regno  aveva l’impronta dello scrittore, il saggio di Jullien ha il tratto del filosofo. Sulla scia di pensatori come Agostino, Pascal e Kierkegaard e, per venire più vicino a noi, di Jean-Luc Marion, Jean-Louis Chrétien e Michel Henry, Jullien  parla del cristianesimo come di una questione centrale, anzi «esplosiva», per il pensiero contemporaneo, portato spesso a liquidarla come appartenente al passato. 

La peculiarità del libro di Jullien è che il suo approccio — come si comprende dal sottotitolo — elude preliminarmente la consueta e scontata disputa fra credenti e non credenti. Egli non ha in mente di riproporre una filosofia cristiana e nemmeno anticristiana: inoltre, più che di “valori” o “radici”, preferisce parlare di “risorse”, un termine che piacerebbe a Papa Francesco.

«La peculiarità della risorsa — spiega — è che essa si esplora e si sfrutta; e che la si esplora mentre la si sfrutta». La risorsa contiene un appello alla responsabilità, mentre il valore «ha fatto deflagrare la nozione tradizionale di Bene nel pensiero contemporaneo». Le risorse poi non entrano in concorrenza l’una con l’altra, per cui ci si può avvalere delle risorse del pensiero cristiano come di quelle del pensiero taoista. Infine, “risorsa” non equivale a “radice”, un concetto che porta a rafforzare l’identità nel senso della chiusura, e «chiama alla condivisione»: il cristianesimo ha compiuto un’operazione di «sradicamento» rispetto al passato, di rifiuto di ogni marchio etnico, di apertura totale verso l’alterità. 

Ma torniamo a Giovanni. Per il nostro filosofo il quarto Vangelo è quello meno ideologico e punta sulla possibilità di un evento che appare inaudito, un evento che viene inscritto dentro l’Essere. E qui c’è un’enorme novità rispetto al pensiero dei greci, che avevano sempre considerato il divenire come un depauperamento dell’Essere. 

Giovanni compie una vera rivoluzione e mette a fuoco la capacità del divenire come evento. Jullien azzarda anche una diversa traduzione dei verbi “essere” e “divenire” che compaiono più volte proprio all’inizio del Vangelo di Giovanni: per lui la traduzione corretta è “avvenire”: «Il mondo avvenne attraverso di lui» oppure «il Logo avvenne carne», eccetera. Questa rilettura del Prologo porta Jullien a sostenere che «Giovanni ha scelto di pensare che esiste un tale “avvenire” che apre un futuro non già contenuto dentro ciò che l’ha preceduto, che non è già legato e incatenato. Qualcosa di inedito è possibile». Il divenire viene ancorato di nuovo all’Essere e lo rende in grado di innovare. 

L’Incarnazione rivista filosoficamente acquista un senso nuovo anche rispetto alla vita, diversamente dai greci, i quali distinguevano fra bios, la vita buona, etica e politica, e zoé, la vita in quanto semplicemente si è in vita, quella che fa di noi dei viventi. Giovanni invece distingue fra psyché, il soffio vitale, il semplice essere in vita, e zoé, intesa come il fatto di avere in sé la vita nella sua pienezza, la vita in sovrabbondanza, differente dal bios greco che ha un significato pressoché solo politico. 

Jullien anche qui critica la traduzione consueta che non rispetta questa distinzione e rende i due epiteti uniformemente come “vita”. E porta l’esempio del dialogo fra Gesù e la samaritana: l’acqua del pozzo che Gesù chiede è quella che mantiene l’essere-in-vita, al livello della psyché, ma «l’acqua che potrebbe offrire il Cristo in cambio è l’acqua viva, nel senso della zoé». Vale a dire «un’acqua che zampilla per la vita che non muore». Uno scarto che si ripresenta a proposito del termine “agape” e che per Jullien va inteso nel senso della vita espansiva, dell’apertura radicale all’altro, in opposizione all’amore considerato come possessivo. 

Come si vede, quella di Jullien è una proposta affascinante, che egli consegna a credenti e non credenti, secondo una concezione del cristianesimo non più come valore ma come risorsa: l’appello a «non contentarsi di essere in vita, ma cercare di raggiungere, in seno a questa stessa vita, con sempre maggior esigenza, ciò che fa vivere». Una vita “espansa” che si offre e si condivide, che non si tiene in serbo ma si dedica all’altro.