Articolo pubblicato sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Mariano Dell’Omo
Ricorre in questi giorni il cinquantacinquesimo anniversario della proclamazione di san Benedetto abate a patrono principale dell’intera Europa, avvenuta con la lettera apostolica Pacis nuntius di Paolo VI che a Montecassino, il 24 ottobre 1964, nuovamente consacrando la restaurata basilica dell’Archicenobio benedettino dopo il bombardamento bellico del 1944, auspicava solennemente che, come Benedetto «un tempo con la luce della civiltà cristiana riuscì a fugare le tenebre e a irradiare il dono della pace, così ora presieda all’intera vita europea, e con la sua intercessione la sviluppi e l’incrementi sempre più». Fu la visione insieme riccamente storica e altamente profetica di Papa Montini che pose san Benedetto al centro del progetto europeo e lo additò come fattore di “civiltà cristiana”.
Prima di lui e con altrettanto spirito profetico lo aveva scritto Giorgio La Pira per un ambito più circoscritto, quello dei monasteri di clausura, convinto però che la preghiera sia forza motrice della storia, come affiora da questo messaggio epistolare del 1954: «Non bisogna aver paura di dirlo: la civiltà cristiana e la città cristiana sono essenzialmente civiltà monastica e città monastica; nel senso che, come nel monastero, anche in esse — in ultima analisi — tutti i valori hanno una orientazione unica e una unica finalità: Dio amato, contemplato, incessantemente lodato».
Mi ha colpito pertanto che in una lettera inedita del grande storico e medievista protestante Ferdinand Gregorovius scoperta nell’Archivio di Montecassino, e ben degna di essere citata in questa sede in coincidenza con i cinquantacinque anni del titolo di Benedetto patrono primario della civiltà europea, emerga lo stesso sintagma “civiltà monastica”, che oggi ci è consueto ma che sulla penna di un luterano che scrive nel 1872 appare ben più singolare, nonostante la sua ammirazione per Roma e l’esperienza storica del monachesimo benedettino. Non a caso il suo più giovane collega protestante Adolf von Harnack, nel libro, del 1881, Das mönchtum, seine ideale und seine geschichte (Il monachesimo, i suoi ideali e la sua storia), mostrava ben altro orientamento nei confronti del monachesimo, che egli riteneva infatti originato da correnti ereticali, estremistiche e rigoristiche come l’encratismo e il montanismo. La sua visione negativa degli albori del fenomeno monastico fu tale da fargli ritenere che nessun libro avesse esercitato sull’Egitto, sull’Asia occidentale e sull’Europa un’influenza più degradante e di imbarbarimento, quindi contraria alla civiltà, di quella prodotta dalla Vita Antonii scritta da sant’Atanasio, oggi universalmente riconosciuta come un vero e proprio archetipo dell’agiografia monastica orientale e occidentale. Ma fu lo stesso von Harnack che diversi anni dopo, nel 1903, incontrando a Roma l’abate Ambrogio Amelli, monaco di Montecassino, chiaro studioso di patristica e letteratura cristiana oltre che musicologo, gli chiese, come lo stesso Amelli rivelò in una sua conferenza del 1905: «“Che cosa si fa lassù a Monte Cassino?”. Al che, senza esitare, l’abate rispose: “Quello che si fa da quattordici secoli: si prega e si lavora”. Ora et labora. “Benissimo”, soggiunse il mio interlocutore con un fine sorriso di compiacenza — continua l’abate Amelli — “ma ciò non fanno i soli benedettini, non è vero? Tuttavia a Berlino si lavora molto, ma poco si prega”».
Evidentemente anche per l’ormai maturo storico del cristianesimo la visione del mondo tipica del monachesimo benedettino (con il suo equilibrio tra deserto e comunione, preghiera e impegno nel mondo, ascesi e carità) esercitava il suo fascino. Quello stesso che si respira più pacatamente in Gregorovius, la cui amicizia con i monaci di Montecassino era già ben nota grazie ad alcune lettere superstiti, indirizzate dallo storico della città di Roma nel medioevo a Luigi Tosti in particolare, e pubblicate da Tommaso Leccisotti nel 1967.
Quella che ho recentemente rinvenuto ha invece come destinatario il neo-abate di Montecassino, Nicola d’Orgemont, nominato solo alcuni mesi prima, il 24 dicembre 1871, e che avrebbe continuato il suo ufficio fino al 1896, anno della morte. Nel 1859 in una lettera al Tosti datata a Roma il 25 ottobre, Gregorovius scriveva: «Mi creda, chiarissimo Don Luigi, che Monte Cassino splende nella mia memoria come fulgida stella».
Tredici anni dopo, mentre raccomanda due signore di Lipsia che stavano per recarsi a Montecassino, quel luogo resta intatto, nella memoria dello storico protestante, come «l’illustre abbazia, la quale una volta il centro era della civiltà monastica e il faro luminoso delle scienze».
L’ideale benedettino può parlare con la stessa eloquenza a un cattolico come a un luterano, perché fondato su quella Regula monasteriorum che Bossuet nel suo Discorso in lode di san Benedetto definì «un compendio del cristianesimo, una saggia e misteriosa sintesi di tutta la dottrina del Vangelo».