L’ultima volta il Papa è andato in Africa per l’inaugurazione dell’Anno Santo. Bisogna evitare, dunque, di alterare il valore dì un appuntamento cosi forte della cattolicità, denso dì implicazioni per la vita civile, che Francesco ha inteso riportare alle sue radici più autentiche: quelle della spiritualità e della solidarietà umana. Ciò rappresenta fin d’ora un chiaro monito per gli amministratori capitolini.
Non ha dato l’idea, in campagna elettorale, di coltivare un rapporto significativo con il mondo cattolico. Laico di formazione, madre valdese, politicamente liberal-socialista, Calenda concepisce il suo impegno pubblico con un certo distacco dalla tradizione cattolico democratica, sebbene esibisca la presenza in Azione di validi collaboratori più vicini a questa linea di pensiero e di azione politica. Non basta, tuttavia, un sodalizio ancora acerbo a qualificare un’apertura o un interesse, a meno di consacrare un gesto di attenzione minimale come architrave di una proposta a largo raggio.
Stupisce, pertanto, che sia stato proprio lui a rivendicare un ruolo di prima piano in vista dell’evento giubilare del 2025. Un suo commento alle voci ricorrenti non lascia adito a dubbi: “Che vada a noi la presidenza della commissione Giubileo? Potremmo essere interessati”. Poi, a scanso di equivoci, ha voluto precisare: “Giuro che nessuno ci ha detto niente”. Ciò significa che se Gualtieri è disponibile, anche Calenda è pronto ad accogliere la proposta di incarico (per sé o per uno dei suoi eletti in Consiglio comunale).
Ora, perché questo balletto attorno al Giubileo? Il Sindaco dovrebbe pensarci su due volte prima di intraprendere una strada che può portare al travisamento di una tappa fondamentale nel cammino del popolo credente. Papa Francesco l’ultima volta è andato ad aprire la Porta Santa a Blanqui, la capitale della Repubblica Centroafricana, rompendo così un’antica tradizione romanocentrica. Il suo magistero, in effetti, sollecita i fedeli a concepire il Giubileo in forme e modi più spirituali, fuori da un contesto di religiosità mondana. Non si vede il motivo, pertanto, che possa modificare direttamente o indirettamente questo forte indirizzo pastorale.
Ora, se la Città vuole disporsi a un’offerta di collaborazione, accompagnando alcuni gesti della cattolicità con il desiderio di avvalorare e sostenere un disegno generale, essenzialmente sotto il profilo delle “buone opere” possibili, tutto dovrebbe fare meno che indulgere alla logica di “grandi opere”, le quali, nel miglior dei casi, rientrano nel novero delle scelte finalizzate a un nuovo sviluppo urbano, di cui Roma ha certamente bisogno. Il governo dovrebbe tornare all’antico, astenendosi dall’attribuzione di risorse ad hoc, come la Roma dei Sindaci democristiani ebbe modo di constatare. Darida non ricevette sostegni governativi e dovette farsi carico autonomamente, per venire incontro a un desiderio di Paolo VI, di quel grandioso sforzo che portò alla eliminazione degli squallidi borghetti sparsi qui e là nelle periferie di Roma, dando finalmente casa a migliaia dì famiglie.
L’esperienza del passato torna utile. Per il prossimo Giubileo non servono nuove strutture ricettive o particolari servizi: basta e avanza ciò che fu realizzato nel 2000, semmai urge un’oculata attività che miri a consolidare l’esistente. Con mezzi poveri si può e si deve concepire un Giubileo che rechi, sul terreno della responsabilità politica posta al servizio di una Roma sofferente, il contrassegno della volontà degli amministratori capitolini a mettere in pratica il richiamo della Chiesa alla difesa dei deboli e dei poveri, con un afflato di autentico solidarismo. Diversamente, scontata la generosità dei propositi di Calenda, vien facile temere che alle buone intenzioni subentri quella “febbre del fare” che solitamente si accompagna, nelle vicende romane, a un amore per cose futili e incoerenti, senza un orizzonte di civile caritas.