Nel 1981, nel centenario della nascita, il giornale della Dc (Il Popolo) dedicava uno speciale a De Gasperi. Tra gli altri interveniva lo storico Pietro Scoppola che nel colloquio con Paolo Giuntella – qui riprodotto integralmente – coglieva l’occasione per sottolineare, ai fini del dibattito allora in corso sulle riforme istituzionali, l’eredità degasperiana a riguardo della funzione centrale, e dunque propulsiva, della Presidenza del Consiglio. Scoppola, contro un Baget Bozzo all’epoca «di sinistra», contesta con sottigliezza e determinazione la tesi di un De Gasperi Restauratore. E ne difende le ragioni anche nella disputa, rivisitata senza pregiudizi, con Dossetti.
(Redazione)
— Professore, lei ha scritto un libro su De Gasperi alcuni anni fa. libro che ha suscitato delle polemiche. Come vede, a distanza di alcuni anni, quelle polemiche e. nel complesso. a che punto sono giunti oggi gli studi su Alcide De Gasperi?
— Certo, quel libro comparso alcuni anni fa, aveva i suoi limiti, ma forse non si è tenuto conto, soprattutto da parte cattolica, del contesto culturale in cui quel libro è uscito. Eravamo più o meno alla metà degli anni ’70, e il clima culturale, per quanto concerne gli studi sul secondo dopoguerra, erano dominati da alcune idee che non è inutile richiamare. La storiografia marxista era orientata sulla tesi della continuità, soprattutto la strategia della nuova sinistra. In sostanza una continuità fra prefascismo, fascismo e post-fascismo. De Gasperi diventava il simbolo, in qualche modo, di questa continuità. La storiografia di matrice azionista si era espressa nel bel lavoro di Antonio Gambino sul dopoguerra. nel quale veniva confermata la tesi di De Gasperi restauratore. Infine, era uscito da poco il libro di Baget Bozzo sul partito cristiano al potere, che esasperava la polemica De Gasperi-Dossetti, e da questo punto di vista riconduceva il ruolo di De Gasperi nella categoria della restaurazione. Qualche segno di movimento si ebbe nel 1976, in un convegno che si tenne a Firenze, sull’«Italia dalla liberazione alla repubblica», organizzato dall’istituto nazionale della storia del movimento di liberazione, e lì, Piero Barucci con una comunicazione sulla ricostruzione economica, ed io stesso con una relazione sull’avvento di De Gasperi. cominciammo a mettere un po’ in crisi questo quadro interpretativo. Il mio libro è nato in un contesto e ha tentato una risposta.
— Gianni Baget, in occasione di una recente presentazione di un epistolario di Buonaiuti a un suo giovane amico, Missir (cfr. Ambrogio Donini. La vita allo sbaraglio, ed. La Nuova Italia, Firenze 1980), ha formulato un giudizio molto drastico. molto polemico nei confronti di De Gasperi. Ha definito Buonaiuti una sorta di riserva religiosa negli anni di transizione, tra fascismo e post-fascismo, e viceversa De Gasperi “corruttore» della Chiesa italiana. Cosa pensa di questo giudizio?
— Non posso essere d’accordo, è un giudizio del tutto astratto, fuori della realtà storica. La Chiesa era una forza sociale di grandissimo rilievo, era portatrice di grandi valori umani, morali anche oltre che religiosi, naturalmente di fede, che sono stati essenziali per la ricostruzione democratica: ma la Chiesa avrebbe comunque giocato un ruolo politico. Non si può immaginare una Chiesa che senza l’operazione degasperiana rimane nel limbo di un ruolo puramente, esclusivamente religioso. di testimonianza profetica, e che in quell’Italia distrutta, con tutti i problemi che c’erano allora, non assume una funzione sociale. di supplenza rispetto a una società in crisi, a uno Stato ridotto nelle condizioni in cui era lo Stato italiano dopo la caduta del fascismo. Ora De Gasperi ha contribuito a far sì che questa forza sociale, questa funzione sociale della Chiesa avesse una piena valenza democratica, in favore della ricostruzione democratica.
– Professore. De Gasperi e Dossetti: una polemica che continua a fare «epopea». a far discutere nella DC. Lei naturalmente continua a dare ragione a De Gasperi e torto a Dossetti?
— Ma non la metterei in questi termini. De Gasperi aveva una visione più realistica della realtà cattolica di allora, e in questo senso darei ragione a De Gasperi (pensiamo alla polemica sul centrismo che, come è noto, Dossetti non voleva; avrebbe voluto l’assunzione da parte della Democrazia Cristiana della eredità del tripartito; dell’eredità, diciamo, dell’antifascismo in maniera autonoma, sulla base di un monocolore. De Gasperi volle il centrismo perché aveva minore fiducia nella capacità della Dc di fare da sola). In questo senso, io continuo a dare ragione a De Gasperi. Questo non significa affatto che Dossetti non avesse la sua parte di ragione. Anzi, a mio giudizio, si deve uscire da questa contrapposizione. Dossetti ha avuto un ruolo essenziale negli anni della ricostruzione, che si è espresso soprattutto nel lavoro all’Assemblea costituente. De Gasperi piuttosto ha svolto un ruolo fondamentale, per quanto concerne il quadro politico generale di quel periodo. I due apporti sono complementari. Il giudizio storico, a distanza di decenni, non attenua i dissensi fra questi due personaggi, anzi, semmai, li mette in luce, ma al tempo stesso riconosce ed esalta, per così dire, la complementarità dei ruoli. La storia è fatta da tutti questi uomini, in un rapporto dialettico talvolta anche aspro, ma certamente è stata fatta insieme.
— Ma. in definitiva, rispetto appunto alla «alternativa» dossettiana, la scelta di De Gasperi fu una «scolta» sostanzialmente liberista?
— Certo, già nell’aprile del 1947, prima ancora della crisi di maggio, come Piero Barucci nel suo libro «Ricostruzione e pianificazione nel Mezzogiorno» ha messo in evidenza con molta chiarezza, ci fu questa svolta liberista. Ma proprio Barucci ha chiarito, con argomenti che mi sembravano ormai probanti, convincenti, che la svolta liberista era nelle cose, era una necessità, perché la cultura liberista era più forte, perché dall’altra c’era la cultura delle riforme guidate, piuttosto che una cultura organica costruttiva, capace di affrontare in positivo i problemi della ricostruzione. Dalla ricerca che è stata fatta. però, risulta un fatto inoppugnabile: che fino all’ultimo – pensiamo al Piano Vanoni – De Gasperi conservò in qualche modo, come dire, il senso di un disagio, di un tormento che lo spinge a riproporre via via un qualche cosa di diverso per far fronte ai problemi sociali del Paese.
— Veniamo al rapporto con gli Stati Uniti. L’impressione, anche interna all’area democristiana, in quel periodo, e rinascente oggi, come giudizio soprattutto giovanile è che De Gasperi abbia accettato una sorta di sudditanza rispetto agli Stati Uniti, rinunciando ad una «originarietà» italiana in politica estera.
— Certo sono scelte che si possono discutere. E alla luce di oggi si vedono tante cose che allora non si conoscevano. Nel complesso, però, mi sembra che la documentazione, la ricerca che si è fatta negli ultimi anni, non confortano questo giudizio così negativo. Perché? Perché in definitiva noi eravamo Paese vinto, Paese soggetto, assai più nella realtà di quanto l’opinione pubblica non percepisse. E la presenza, per esempio, della Commissione alleata di controllo, prima ancora dell’avvento di De Gasperi, ossia già nel 1945, nei sei mesi dal giugno alla fine dell’anno, è incisiva su tutti i problemi italiani, e De Gasperi fa lo sforzo di gestire questo necessario rapporto di dipendenza, almeno in termini politici unitari. Nasce proprio nei primi mesi del 1946 questa esigenza di una centralità presidenziale, di un ruolo della Presidenza del Consiglio che incentra in sé lutti i rapporti con gli alleati, con gli americani, in maniera da dare complessivamente a questi rapporti un significato politico autonomo, adeguato agli interessi del Paese E questo atteggiamento di prendere atto di una dipendenza, ma al tempo stesso di gestirla secondo una visione organica degli interessi italiani, è quello che caratterizzò la politica di Di Gasperi, e si esprime in questa centralità presidenziale che, in fondo, se vogliamo, ha anticipato esigenze che oggi riemergono. È significativo che anche da parte comunista – ricordo una intervista rilasciata dal presidente della Camera. Nilde lotti, tra la fine dell’anno scorso e l’inizio di questo anno, al Corriere della Sera, dove è sottolineato l’apporto che De Gasperi concretamente ha dato a una corretta definizione dei poteri dell’esecutivo – Per altro verso è innegabile che in De Gasperi c’era la scelta dell’occidente. La scelta dell’occidente è voluta, non è subìta: è liberamente voluta ed è una scelta che ha anche garantito all’Italia quello sviluppo che essa ha avuto e che ha consentito quel grande indiscusso grado di libertà nel quale il nostro Paese si è sviluppato.
— In definitiva, dunque. lei è un «degasperiano» convinto…
— Ma. la storia non è un tribunale: non assolve e non condanna. Il problema è di capire: ora, quando si capisce il processo storico reale, o ci si sforza di capirlo, per lo meno le cose appaiono in una luce un po’ diversa.
Una conoscenza storica che è fondata, che è legata ad un senso dell’uomo, ad una visione della vita, in cui contano valori di responsabilità, di libertà, di solidarietà umana, non giustifica, ma ci permette di capire il processo storico dal suo interno, cogliendo anche i limiti. E certamente limiti ci sono stati nella vicenda complessiva di quegli anni.
I limiti certo vanno riconosciuti. Ma se l’Italia è rinata alla democrazia, si è sviluppata, è cresciuta enormemente, molto lo dobbiamo proprio a quei primi anni che sono stati delineati dalla grande figura di De Gasperi.
Il grande merito storico di De Gasperi è quello di aver valutato con rigore intellettuale morale e politico il quadro storico in cui muoveva i primi passi la democrazia italiana e il forte peso, per alcuni aspetti anche drammatico, che aveva sulla società italiana l’eredità del fascismo. Peso cui vanno unite le diffidenze clerico-moderate, ed anche clerico-fasciste, da un lato, e le eredità leniniste dei comunisti (cui dovrà fare fronte lo stesso Togliatti) nei confronti della democrazia parlamentare occidentale.
De Gasperi ha saputo unificare, questa complessa società italiana post-fascista e più in particolare ha saputo portare l’articolato mondo cattolico, segnato da non poche contraddizioni e arretratezze culturali, unito alla scelta democratica, con una sintesi politica vincente, pazientemente tessuta non senza difficoltà e incomprensioni, fino a conquistarlo definitivamente al consenso pieno e convinto alla democrazia e alle sue regole.
Certo noi oggi, a 36 anni di distanza. ci ritroviamo su posizioni molto lontane dalle speranze di allora. Il nostro Paese si e laicizzato: mai si è laicizzato tanto come dopo 36 anni di governo della Democrazia Cristiana. Sarebbe sbagliato però dire che si è laicizzato perché la DC è stata al potere: ma certo questi 36 anni segnano l’emergenza di problemi nuovi, gravissimi. di fronte ai quali la coscienza dei cristiani e le nuove generazioni devono prendere le loro responsabilità. E questo si farà tanto meglio, vorrei dire, sulle spalle del passato, non semplicemente scaricando su altri le colpe di problemi, di difficoltà che oggi ci troviamo ad affrontare.
Intervista a cura di Paolo Giuntella