Nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica le cronache s’arricchirono, giorno dopo giorno, d’un florilegio di motivazioni ad opera di politici e intellettuali per l’abbandono del proporzionale in favore del sistema maggioritario. La tesi centrale faceva leva sulla convinzione che le nuove regole elettorali avrebbero assicurato la formazione di maggioranze coese e perciò capaci di governare senza il sovraccarico di mediazioni e compromessi, causa non secondaria della crescita abnorme del debito pubblico italiano.
In modo ossessivo, il proporzionale era stato accusato di generare governi deboli e instabili, costretti a continue verifiche interne e a transazioni sotterranee con l’opposizione. Il modello consociativo aveva impedito, secondo i suoi critici, di affrontare con efficacia le principali sfide del Paese, in particolare quella legata all’equilibrio finanziario dello Stato.
Nel 1993 Michele Salvati espresse lucidamente le ragioni della scelta in un articolo pubblicato su Il Mulino: “Il sistema maggioritario favorisce la creazione di una maggioranza omogenea, capace di governare senza i vincoli imposti dalle coalizioni eterogenee, tipiche del proporzionale. Ciò consente una più efficace gestione della spesa pubblica, un maggiore controllo sui conti dello Stato e una più rigorosa responsabilità fiscale”. Questo ed altri interventi analoghi ebbero un impatto notevole sulla pubblica opinione, dando una nobile copertura ideologica alla battaglia in corso.
E i risultati? La stabilità, ancorché formalmente acquisita per effetto del premio di maggioranza, sempre contemplato pur variando nel tempo il modelli elettorali, non è stata così solida (per usare un eufemismo). Le coalizioni si sono proposte e riproposte con un tasso elevato di ambiguità, cavalcando preferibilmente le facili promesse e l’elusione dei problemi più impegnativi. Nel 1992 il debito pubblico toccò quota 105 – in percentuale sul Pil – mentre nelle previsioni di quest’anno finirà per attestarsi al 137 per cento.
È accaduto, in sostanza, che il maggioritario abbia prodotto una spirale di radicalizzazione di cui si avvertono tutti gli effetti negativi sulla vita democratica, con un crescendo di sfiducia verso il mondo della politica. Ieri, intervistato dal “Corriere della Sera”, Mario Monti ha pure evidenziato che la verticalizzazione del potere – emblema della logica maggioritaria – smentisce la pretesa di maggiore efficienza. “In questa fase – ha commentato – le due grandi repubbliche presidenziali, Francia e Stati Uniti, hanno due caratteristiche in comune. Una è la polarizzazione. L’altra è un deficit elevato, proprio perché le divisioni incoraggiano politiche di bilancio squilibrate in nome del consenso o prodotte dalla paralisi politica”. Tutto il contrario, in filigrana, delle baldanzose promesse della rivoluzione di trent’anni fa.