Serbo un’intima gratitudine – che custodisco con gelosia e affetto – verso la scuola della mia adolescenza: ne conservo un ricordo sfocato e leggero dove, come in una magica e fiabesca rievocazione, trovano posto apprendimenti e personaggi e riaffiorano dettagli allora apparentemente insignificanti.
La rivisito con nostalgia e vi cerco spiegazioni e risposte al mio presente.
Trovo che fosse una scuola che sapeva affiancare la vita, senza forzature: svolgeva la sua parte, in genere con umiltà e in silenzio.
Non erano tutte rose e fiori, c’erano difficoltà, ingiustizie, discriminazioni: qualcuno l’ha poi ben evidenziato, scrivendo la sua lettera ad una professoressa e il sessantotto ha scoperchiato molte viltà ma le ‘vestali della classe media’, cioè gli insegnanti di quel tempo, erano le prime vittime della situazione dovendo vivere come i fedeli depositari di una cultura da tramandare in un mondo dove stavano emergendo con forza dei valori diversi: il successo, l’arrivismo, i lesti guadagni, la facilitazione, la stagione dei diritti, l’apertura al sociale, l’egualitarismo irriverente che ha poi partorito i mostri sacri della trasparenza e della privacy, mettendo di fatto le manette ai polsi delle relazioni personali e della comprensione tra la gente.
La scuola è stata forse in questi anni il contesto sociale più attraversato dalla massa d’urto del cambiamento ed è successo di tutto, un vero ribaltone generale: molti somari sono passati dai banchi direttamente alle cattedre, molti insegnamenti sono stati giudicati inutili e superflui, molti libri sostituiti dai giornali e dalla ‘cultura della realtà’, molti soloni hanno fatto a gara per stabilire più aggiornati paradigmi culturali fino alle recenti derive delle ‘tre i’ e dell’ondata delle nuove tecnologie, delle nuove educazioni e dei ‘progetti’.
Ripenso all’intuizione di Pascal che in una geniale definizione aveva spiegato la complementare compresenza nell’uomo della razionalità e del sentimento: “l’esprit de geometrie e l’esprit de finesse’.
Una sintesi somma e raffinata di secoli di cultura e un punto di partenza imprescindibile per conservare nell’uomo un equilibrio interiore, dosando con sapienza le ragioni dell’intelletto e quelle del cuore, suggestione che la pedagogia del post-moderno ha poi ribattezzato come “formazione integrale della persona umana”.
Eppure, come sempre accade nei corsi e ricorsi storici e senza farne un dramma (perché ci sono le andate ma poi ci sono anche i ritorni) mi pare che la deriva degli anni più recenti abbia fatto pendere solo uno dei due piatti della bilancia.
Guai se la scuola fosse solo luogo di apprendimenti strumentali, guai se dovesse esaurire il sapere da far apprendere ai ragazzi nel mero soddisfacimento dei bisogni sociali, se dovesse parlare ed esprimersi solo con il linguaggio delle nuove e più avanzate tecnologie.
Credo che stia accadendo invece questo: che la scuola abbia in parte perduto “il gusto” della conoscenza, il dovere della formazione critica, lo stimolo della riflessione, il piacere culturalmente provocante della digressione e del pensiero divergente, in una parola (paradossalmente, nonostante il proliferare di un numero insensato di progettini sciocchi e dal fiato corto) abbia mal gestito la sua naturale vocazione alla creatività.
Il sapere, anche quello trasmesso nella sua più idonea sede istituzionale – la scuola – appunto, non è mai duplicazione della realtà ma sua rielaborazione, il pensiero più alto e originale è anzi quello che dalla realtà e dai suoi condizionamenti palesi o occulti sa prendere le distanze: la cultura è applicazione ma anche e soprattutto “astrazione”.
Ora, mi pare che da molto tempo la scuola sia orfana dell’educazione sentimentale, una ‘piccola fiammiferaia’ che accende zolfanelli effimeri e dalla luce fioca.
Più che ingolfare le menti di dettagliati contenuti e addestrare a sempre più complesse abilità sarebbe forse primariamente utile stimolare la motivazione ad apprendere, la gioia di esprimere e confrontare opinioni, il piacere dell’espressione a volte, perché no, dissacrante e liberatoria, lo scandaglio dell’anima, l’avventura della fantasia, il gusto della scoperta immateriale, l’immaginazione, lo stupore e l’incanto del far parte di un pensiero universale.
“L’uomo dovrà sempre inventare, dobbiamo aiutarlo stimolando in lui la creatività e la curiosità, educarlo ad essere esploratore”: mi pare che questa breve riflessione di uno dei padri dell’intelligenza artificiale – il Prof. Mario Somalvico – ben si adatti anche a spiegare un più esteso ambito spirituale.
Penso alla poesia, espunta dalla cultura prevalente del mondo giovanile e soverchiata proprio dalle nuove tecnologie, sconfitta da internet, dalla Tv e dai loro disvalori, che trova ancora forse solo nella scuola diritto di cittadinanza e di senso.
Mi riferisco ovviamente alla poesia non come formula da mandare a memoria, mera concatenazione di versi e strofe, materia di studio, genere letterario più o meno ostico ai ragazzi di oggi: la penso invece come aspetto raffinato dell’espressività umana, completamento della dimensione antropologica, così come intuitivamente colto da Shelley, come parte della storia e, quindi, della vita.
Rifletto spesso sulle straordinarie potenzialità culturali dello studio della poesia sia come fonte di conoscenza delle vicende umane, sia come apprezzamento della sua ineguagliabile capacità di rappresentare la gamma estesa e infinita dei sentimenti, sia – infine – come forma emotivamente liberatoria delle personali capacità comunicative di ciascuno.
La penso come slancio vitale.
Ma se l’educazione sentimentale sta diventando la piccola fiammiferaia della formazione scolastica in senso stretto, la poesia è cenerentola nella scuola e nella vita.
Deve far posto ai nuovi saperi e alle mille esigenze che allontanano l’uomo di oggi dalla riflessione e dalla contemplazione: maiora premunt, ci sono cose più importanti, appunto.
Ripenso spesso ad una suggestiva metafora, appresa negli anni della mia esperienza professionale, di cui sono grato all’autore – il Prof. Luigi Lombardi Vallauri – per la sua illuminante e originale prospettiva didattica, cui mi sono sovente, timidamente ispirato.
Mi riferisco all’allegoria della scuola come “astronave di assorti”: un luogo dove insegnanti ed allievi sono idealmente uniti nell’impegno della meditazione intesa come riflessione sulla vita e sul mondo, non per legare gli apprendimenti alla considerazione della mera, contingente realtà ma per liberare il pensiero e la fantasia in quanto spunto di trascendenza dalle cose.
Nulla di più sideralmente lontano, nella creatività dell’intuizione e nell’oggetto di studio di quel cenacolo pedagogico, dagli odierni rituali delle tavole rotonde e dei lavori di gruppo.
Due impostazioni assolutamente non omologabili tra loro: avvincente e creativa l’una, logorante e logorroica l’altra.
Quando ripenso a questa suggestiva idea mi viene in mente la trama del film “L’attimo fuggente” di Peter Weir, magistralmente interpretato da Robin Williams nei panni del professor Keating.
Utilizzare la meditazione come occasione di formazione e di crescita significa davvero valorizzare tutte le capacità formative della scuola, sancire un patto etico tra docenti e alunni, condividere l’avventura dell’esplorazione dell’anima.
Credo che la poesia – non quella ‘dell’orecchio’ ma della mente e del cuore – conservi ancora la sua straordinaria potenzialità di affinamento della sensibilità umana e di formazione dell’intelligenza e del carattere, e resti alla fin fine, insieme alla musica, la modalità espressiva più ricca, intima e coinvolgente.
“Il potente spettacolo continua e tu puoi contribuire con un verso. Quale sarà il tuo verso?”.