Roberto Paolucci aveva pubblicato l’altro giorno, utilizzando la chat dei Popolari Toscani Europei, una riflessione originale sui rapporti tra fede e politica. La questione meritava un approfondimento, per non disperdere il valore delle suggestioni proposte. Il compito se lo è assunto Emanuela Valeriani. Due punti di vista collimanti, ma al tempo stesso diversi. In sostanza, da una disputa del IV secolo si scende in picchiata sull’attualità. Siamo lieti di proporre ai lettori de “Il Domani d’Italia” i due interventi.

Roberto Paolucci

Nel IV secolo dopo Cristo la disputa Simmaco San’Ambrogio, vescovo di Milano può essere considerata l’inizio del relativismo. Dice Simmaco, senatore e prefetto romano che voleva rimettere al suo posto nel Senato di Roma la dea vittoria:

Quid interest qua quisque prudentia verum requirat? Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum” (Relatio III, 10). La conoscenza del divino, dice il prefetto di Roma, può essere raggiunta in modi diversi; perché dunque privilegiarne uno soltanto?

Tale disputa sembra in qualche modo ricollegarsi al non sopito e sempre fecondo odierno dibattito sul dialogo interculturale ed interreligioso. La risposta del vescovo Ambrogio è nella sua epistola n.18, indirizzata all’imperatore Valentiniano:

“Leggi e rileggi, ti prego, e fruga a fondo la dottrina dei pagani. Appariscenti e magniloquenti suonano le loro parole, ma difendono idee vuote di vero; parlano di Dio, ma adorano una statua…Dice che «non si può giungere per una sola via a un mistero così grande». Ciò che voi ignorate, noi lo sappiamo dalla voce di Dio. E ciò che voi ipotizzate, a noi è noto dalla stessa sapienza e verità di Dio. Non c’è accordo dunque fra la vostra e la nostra condotta. Voi implorate dagli imperatori la pace per i vostri dèi, noi chiediamo a Cristo la pace per gli stessi imperatori. Voi venerate le opere delle vostre mani, noi riteniamo offensivo ritenere Dio tutto ciò che si può fabbricare. Dio non vuole essere adorato in una pietra. Perfino i vostri filosofi ne hanno riso. Che voi negate la divinità di Cristo perché non credete alla sua morte (non sapete infatti che quella fu una morte della sua carne, non della sua divinità, a cui si deve se nessuno più dei credenti morirà), che c’è di più insensato di voi, che adorate offendendo, e onorate umiliando? Giacché voi reputate vostro Dio un pezzo di legno. Che venerazione offensiva! Non credete che Cristo sia potuto morire…”.

Ambrogio, campione del nuovo mondo in ascesa, impone il valore del cambiamento, dell’evoluzione e del progresso: “Infatti, come le cose naturali si son venute via via perfezionando, così anche gli uomini, attraverso tentennamenti e vacillamenti, sono giunti nella tarda vecchiaia alla pura fede”. 

Oggi, in Europa, torna attuale la disputa sull’altare della Vittoria e il crocifisso. Infatti, la recente sentenza della Corte europea dei diritti umani sulla rimozione del crocifisso dalle aule della scuola statale e le polemiche che l’hanno accompagnata possono indurre ad assimilare la rimozione e i contendenti del quarto secolo alla rimozione e ai contendenti di oggi.

Ci sono, però, importanti differenze.La prima rimozione è un fatto, la seconda ha deboli possibilità di diventarlo.

In effetti, l’eterogeneo fronte politico che si oppone alla sentenza di Strasburgo è così ampio da renderne difficoltosa la applicazione.

La rimozione del crocifisso, se diventasse un fatto, sarebbe un’operazione simbolica fondamentale di passaggio dal regime di religione di Stato, che tollera più o meno le altre religioni, alla libertà religiosa dello Stato laico, che non ha religione né simboli religiosi.

La rimozione dell’altare della Vittoria è, invece, un momento della transizione da un’antica ad una nuova religione di Stato. La laicità promossa da quell’atto è provvisoria, è la tregua temporanea tra due forze religiose e politiche in conflitto, una in declino e l’altra in ascesa.

Simmaco e Ambrogio difendono due diverse pratiche d’imposizione della religione di Stato: una ormai perdente, nostalgica e permissiva, l’altra vincente, progressista e intransigente.

Ai nostri giorni starebbero entrambi dalla stessa parte: contro la sentenza di Strasburgo.

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Emanuela Valeriani

La rimozione dell’altare della Vittoria dalla Curia nel 382 è solo una delle azioni messe in campo dall’imperatore Graziano per colpire il paganesimo. Infatti, il culto che fino a quel momento era stato sovvenzionato dallo Stato, cessò anche di ricevere ogni forma di finanziamento pubblico. Un colpo decisivo, inferto da un imperatore di fede nicena che ben rappresenta un fenomeno importante del IV secolo: la cristianizzazione del mondo antico. 

Come ha correttamente scritto Herbert Bloch, “uno dei fenomeni più notevoli del secolo IV è la rapidità con cui la Chiesa, sino allora perseguitata, dopo essersi procurata l’aiuto del governo di recente convertito al cristianesimo, passò dalla difesa all’attacco”. La querelle tra Simmaco e Ambrogio – che peraltro avvenne in maniera indiretta – si inserisce in tale contesto, mettendo in evidenza il ruolo imperiale nelle questioni di carattere religioso. Nel IV secolo, infatti, l’appoggio o meno del potere politico è ciò che determina la vittoria di una religione su un’altra – come in questo caso – o di una corrente cristiana su un’altra, come nel caso della controversia ariana.

Simmaco e Ambrogio rappresentano, quindi, come ha osservato Michel Meslin, due opposti “totalitarismi religiosi” che cercano di avere dalla propria parte il potere politico per prevalere l’uno sull’altro.  

In tal senso, il raffronto tra la sentenza della Corte europea dei diritti umani sulla rimozione del crocifisso dai luoghi pubblici e l’imposizione di Graziano di rimuove l’altare della Vittoria dalla Curia è – a mio avviso – condivisibile perché, in entrambi i casi, un’autorità giuridica è chiamata a intervenire su questioni riguardanti la religione.

Detto questo, bisogna chiedersi, però, a chi giova oggi che un’autorità giuridica sia chiamata a pronunciarsi in merito a questioni inerenti la religione. Certamente non giova alla politica, tenuto conto che si tratta di decisioni che, seppur tese alla difesa della libertà religiosa, si guadagnano critiche severe e risultano essere – a livello elettorale – sempre più impopolari. Ma non giova neppure alla chiesa cattolica e tantomeno alla fede cristiana.

Relativismo, quindi, non è togliere il crocifisso dai luoghi pubblici – obbligo introdotto peraltro da una legge dello Stato fascista nel ’24 – ma è accettare che a rivendicare l’importanza dei valori cristiani sia la presenza o meno della croce nei luoghi pubblici, riducendola a un simbolo arido e muto. La croce di Cristo per tutti i cristiani, invece, parla di Dio che si è fatto vicino alla fragilità dell’uomo. Simbolo di speranza e di salvezza, ma non di potere! 

I cristiani sono chiamati a vivere ogni giorno, nei luoghi della vita quotidiana, la responsabilità di “difendere” il valore profondo della croce. Anzi, oggi le chiese devono tornare a preoccuparsi di evangelizzare l’Europa non per contrapporsi, come nel IV secolo, ad altre religioni, ma per far conoscere di nuovo Gesù e la sua Parola: questo è il nodo e la sfida dei cristiani affinché la loro voce sia forte e incisiva in un mondo che non mette più al centro l’essere umano.

Un atteggiamento responsabile e autenticamente cristiano di ciascun credente diventa, inevitabilmente, anche un “atto politico” come diceva don Milani.

Perché, allora, le istituzioni europee sentono il bisogno di intervenire su questo aspetto? Perché, invece, rimangono quasi inerti di fronte al dramma dei migranti che muoiono in mare, che sono venduti ai trafficanti, che sono ridotti in schiavitù nei nostri “civilissimi” Paesi? Perché non avvertono la responsabilità dei morti di tante guerre? Perché non sentono la necessità di darsi regole comuni a tutela dell’ambiente?

Di fronte a questi scenari, il compito della politica europea è quello di porre in essere azioni concrete e urgenti – non ideologiche – che promuovano i valori di quell’umanesimo proprio della nostra tradizione europea, cristiana e laica, mentre la vera sfida per i cattolici è fare in modo che le politiche europee non distolgano lo sguardo dalle tante croci di questo mondo.