Preoccupano le ondate di tensioni e proteste ma il nostro futuro sarà migliore

Intervista a Riccardo Cinquegrani, docente di Previsione umana e sociale alla Gregoriana.

Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Marco Bellizi

Non è uno studioso votato all’ottimismo a tutti i costi, Riccardo Cinquegrani, docente di Previsione umana e sociale alla Gregoriana. Anche se, da “liceale degli anni Ottanta” l’impressione è che non abbraccerebbe neanche la categoria degli apocalittici cara a Umberto Eco. In fondo, dipende sempre tutto da noi, e dalla lezione che sapremo mettere a frutto in questo scenario “postbellico”.

Professore, l’11 settembre del 2001 abbiamo avuto tutti la percezione immediata che niente sarebbe stato più lo stesso. E in effetti, almeno sotto alcuni aspetti, così è stato. Il virus ha prodotto all’inizio lo stesso giudizio, eppure si fa sempre più strada la sensazione che alla fine non cambierà poi molto. Anche a partire dalla sua esperienza di studioso della “scienza della previsione”, come detonatore del cambiamento è più efficace la paura o la creatività?

Credo che lo scoppio di questa pandemia abbia prodotto come reazione generalizzata l’aspettativa di un ritorno alla normalità. Tutti quanti noi abbiamo visto come futuro migliore possibile e auspicabile il tornare indietro, alle condizioni ante febbraio-marzo 2020. Questo è un meccanismo noto e studiato, chiamato ”retrotopia”, sostanzialmente la proiezione di un’utopia rivolta al passato. Ed è già una grande differenza rispetto a quanto accaduto invece dopo l’11 settembre del 2001, quando soprattutto nella nostra percezione occidentale c’era il desiderio in primo luogo del superamento di uno stato di paura. Penso che in questa fase sia la creatività il driver rispetto al quale possiamo sperare di trarre buone conseguenze. Due esempi su tutti: il primo è una rivisitazione delle regole che dettano l’andamento democratico delle istituzioni. Abbiamo vissuto una fase nella quale la decisione politica è stata subordinata alla scienza, all’esperienza di virologi e medici. Anche questo nella scienza della politica è un meccanismo studiato da parecchi anni, almeno dagli anni Ottanta, quando si sono studiate le comunità epistemiche, cioè i gruppi di esperti che riescono con il loro agire a dettare l’agenda politica. Quello che è stato meno studiato tuttavia è qual è la relazione fra queste comunità e i gruppi di pressione, i partiti e la società civile: in che modo la comunità politica in una fase di emergenza può derogare a quelle che sono le regole democratiche. E questo è un punto che secondo me, farà generare una creatività organizzativo-istituzionale che dovrebbe portare a in un certo senso a reingegnerizzare la nostra democrazia. Il secondo punto di riflessione viene dalla storia. La fine della prima guerra mondiale ha portato alla crisi del 1929, ai nazionalismi che hanno aperto la strada al secondo conflitto. La fine della seconda invece ha portato a disegni di grande respiro, le visioni di Spinelli, Schuman, l’Europa, e conseguentemente anche un periodo di pace, quantomeno per noi, e comunque la fine del colonialismo. Adesso, parafrasando un po’ la “terza guerra mondiale a pezzetti”, citata da Papa Francesco, noi usciamo da una situazione postbellica e abbiamo la possibilità di scegliere quale delle due strade prendere. Abbiamo la possibilità di rivendicare modelli alternativi, come quelli presentati per esempio dalla dottrina sociale della Chiesa, che puntano molto di più sullo sviluppo umano integrale, sul dialogo, su una riconsiderazione anche del modello economico.

Delle cose cambiate sino ad ora, cosa è destinato a rimanere diverso e cosa invece è destinato a una sorta di restaurazione?

Penso che sia destinato a cambiare il ruolo degli stati nazione nello scacchiere internazionale. Gli stati hanno sofferto molto in questa fase perché pressati dal basso dal localismo e anche della lecita aspettativa dei cittadini di avere dei servizi di prossimità che concretizzassero il principio di sussidiarietà. In Italia per esempio abbiamo sentito parlare tantissimo di “medicina del territorio”. Pensare che queste cose vengano ora gestite centralmente è piuttosto complicato. L’idea di Stato così come è uscita dalla Rivoluzione francese in poi sarà progressivamente rivista, così come le attuali forme di governo e le modalità dei meccanismi decisionali. Quello che invece non credo cambierà ma anzi sarà per certi versi rafforzato è il modello pedagogico, il modo in cui noi impariamo. La scuola e l’università sono state messe a durissima prova in questa fase, ci sono state reazioni a mio parere di eccellenza, una capacità di adattamento e di resistenza veramente encomiabili da parte degli studenti in primis ma anche dei docenti e delle famiglie. Ma quello che abbiamo imparato è che la didattica a distanza non può sostituire completamente quella che è un’esperienza formativa e umana che, mi perdoni forse la banalità, passa anche dal litigio con il compagno di banco, dal lavoro di gruppo, dallo sviluppo di tutta una serie di competenze relazionali fondate sulla presenza.

Lei definisce gli ultimi 25-30 anni come l’epoca del “Prima io”. Rimanendo in tema di cose che non cambieranno, il virus non rischia semmai di accentuare questo malinteso senso di conservazione?

Sono d’accordo. Il virus secondo me ha messo in evidenza alcuni sintomi di quelle che sono le malattie delle nostre società. La pandemia secondo me ha lanciato dei messaggi anche abbastanza chiari. Primo: il restare troppo in superficie, l’abboccare alle fake news, ai messaggi gridati. La bulimia di informazione accompagnata dall’anoressia di approfondimento. Il secondo punto riguarda l’incapacità di mettere a frutto l’insegnamento. Ho notato in più circostanze, quando si parla di nuovi progetti, non solo per l’Italia ma anche per scenari molto più estesi dal punto di vista geografico, che viene quasi passata sotto silenzio la necessità di ripensare la mission delle istituzioni, il fine per il quale si lavora, per il quale di educa, per il quale si è disposti a fare dei sacrifici. Noto che non c’è la volontà di approfondire questo tema.

Nello studio degli scenari evolutivi di determinati fenomeni si distingue fra scenari tendenziali, ideali (auspicabili) e di “contrasto”, ovvero negativi. Riguardo alla pandemia quest’ultimo fino a marzo scorso era il più accreditato. Ora?

Devo premettere che i parametri che usiamo in questa situazione di pandemia sono diversi da quelli che utilizziamo per gli scenari tradizionali: ad esempio il “breve periodo” sta a significare da qui a pochi mesi, sino alla fine del 2020, inizio 2021. Osservo che da più parti si tende ad avanzare l’ipotesi infausta di una seconda ondata del virus. Ovviamente non ho le competenze sanitarie per giudicare se questo sia possibile o probabile, però credo che sia verosimile che i governi e le istituzioni si siano preparati a uno scenario di questo genere. La “previsione” aiuta proprio in queste situazioni. Non è possibile dire se una cosa avverrà o non avverrà ma è utile definire come ridurre i margini di incertezza rispetto al verificarsi di determinati eventi: se noi ora sappiamo che questa possibilità esiste allora dobbiamo concentrare i nostri sforzi massimamente per essere pronti e organizzati nel caso in cui questa situazione si verifichi. Ma quello che a me fa più paura è la situazione sociale ed economica, non soltanto dell’Italia. Mi chiedo se la situazione negli Stati Uniti, con queste proteste in cui sicuramente l’elemento relativo al problema razziale è forte e presente, possa anche essere ricondotta ai 40 milioni di disoccupati generatisi negli ultimi tre mesi o dal crollo a due cifre del pil, da un orizzonte di ripresa ancora lontano… Non possono essere credibili detonatori di un malessere che in realtà evidentemente già serpeggia nella società? Per contro, in positivo, c’è stato un risveglio di attenzione nei confronti della casa comune, questa interconnessione, come dice Francesco nella Laudato si’, ci ha fatto capire che l’attenzione all’ambiente non è una moda bohemienne, è una necessità che deve dettare la nostra agenda. La forza del virus è stata nella velocità, che ha cambiato in maniera altrettanto rapida e profonda addirittura anche i diritti per quasi la totalità della popolazione mondiale. Ora però c’è da chiedersi se abbiamo imparato qualcosa e se sì cosa abbiamo imparato e come lo mettiamo a frutto. Qui la previsione ci viene incontro: non è una scienza esatta ma è una disciplina volta a suggerire comportamenti nel presente per far sì che si possano più probabilisticamente realizzare degli eventi nel futuro. È una struttura che disciplina e organizza una risorsa importante come il tempo in una maniera innovativa e interdisciplinare. L’interdisciplinarietà è un bel filo conduttore che collega diverse encicliche, dalla Populorum progressio di Paolo VI fino alla Evangelii gaudium di Francesco. Questo filo rosso del sapere messo a servizio e a reddito del bene comune è qualcosa che il virus ci ha insegnato. È come quei giochi della settimana enigmistica in cui bisogne unire i punti per fare emergere l’immagine nascosta. Questa è l’occasione giusta per poterlo fare.

Ha citato la questione ambientale. L’impresa segue i profitti, gli investimenti girano di conseguenza, e siccome anche l’ecologismo è un settore che, come abbiamo imparato, può essere in grado sempre più di generare guadagni, cresce anche il rischio di perdere di vista l’obiettivo originario. In quest’ottica quali sono le maggiori insidie?

Torno a quanto dicevo prima. Finché il modello di sviluppo è dettato essenzialmente da meccanismi di profitto il rischio è altissimo. Tuttavia, su questo, per il futuro, sono decisamente ottimista. Non nel brevissimo periodo, ma su una scala più lunga di tempo. C’è un dato molto semplice: vedo una sensibilità altissima nelle nuove generazioni, Siamo di fronte a un bivio: da un lato l’autodistruzione e dall’altro un tentativo di ricostruzione. È ovvio che tutto questo passa per un nuovo modello di sviluppo e anche qui la Chiesa ha delle proposte concrete e significative che prendono il nome di “sviluppo umano integrale” .

Sempre rimanendo nelle divisioni temporali proprie soprattutto della scienza economica, nel medio e nel lungo periodo secondo lei ci sarà una maggiore o minore delocalizzazione produttiva?

Penso che nell’immediato ci sarà ancora un bisogno di prossimità. Quindi una maggiore fiducia in quello che viene prodotto vicino a casa mia. Se però dovesse continuare questo modello di sviluppo, ovviamente la ricerca del minor costo di produzione tornerà a prevalere insieme con un’ulteriore delocalizzazione. Un effetto del virus è stata la riconsiderazione dei meccanismi di approvvigionamento che abbiamo seguito a livello famigliare o comunitario. Molti di noi hanno dovuto fare degli acquisti online anche per i generi di prima necessità. Ciò ha fatto sì che ci sia una sempre maggiore dematerializzazione dell’acquisto e questa è un’altra rivoluzione in nuce per quanto riguarda il mondo del commercio. Credo che fintanto che le nostre scelte saranno irrazionali, o meglio, guidate dalla consapevolezza della paura (sarà così fintanto che l’ombra del virus aleggerà sulle nostre teste) saremo molto “glocali”, cercheremo tutto ciò di cui abbiamo bisogno o cui siamo abituati, seguendo meccanismi di vicinanza. Superata questa paura, se non verrà interiorizzata l’eredità che questa pandemia ci ha lasciato, si tornerà alla logica del profitto e quindi del minor costo di produzione.

Quali possono essere gli effetti dell’euforia “da rimbalzo”, da scampato pericolo?

Esattamente come ha detto lei, la logica del rimbalzo. È come un tonfo della borsa che il giorno dopo si tramuta in una crescita inspiegata del valore di determinati titoli. Molti hanno vissuto questo periodo di lockdown quasi come una privazione. Ho sentito parlare di termini come “reclusione”, “prigionia”, quindi è chiaro che quando si aprono le porte c’è soprattutto una reazione psicologica che può portare a degli eccessi. Torna il tema della superficialità, il non avere utilizzato in maniera propositiva questo periodo per riflettere, per leggere, per studiare, per capirsi anche all’interno delle proprie famiglie, delle proprie comunità. Sono consapevole che questo è un lusso che si è potuto prendere per esempio chi non aveva l’angoscia di perdere il posto di lavoro o il timore di non riuscire ad arrivare a fine mese, ma nelle ultime ore leggiamo della legittima volontà di andare in vacanza, di divertirsi, di tornare a ballare… Come se il vero obiettivo sia ancora una volta realizzarsi nelle proprie fisicità e nelle proprie abitudini. E come ogni stato euforico, si tratta di uno stato altrettanto irrazionale di quello dettato dalla paura. E quando si è irrazionali il rischio di commettere degli errori è più alto rispetto a quando si cerca di riprogrammare una ripresa.

Se un giovane imprenditore venisse da lei e le chiedesse di suggerirgli un settore nel quale investire, cosa gli risponderebbe?

È una domanda molto difficile. Cercherò di rispondere dividendo la risposta in due tranche. La prima, da idealista (ho visto di recente in televisione la storia di Olivetti): se questo è un giovane imprenditore che ha visione, desiderio di mettersi al servizio della collettività, se è alla ricerca di un legittimo profitto per sé ma non è orientato a massimizzarlo infischiandosene di tutto ciò che gli sta intorno, gli suggerirei di investire nella conoscenza e nelle scienze umane. Investi nella conoscenza, investi nella formazione di tuo figlio, dei giovani… Può essere anche un apprendimento del tutto informale, non per forza un corso, ma un abituarsi al bello, all’arte, alla letteratura… alla natura.. Questo se fossimo in un mondo ideale. Se invece dovessi dargli un suggerimento pensando a un investimento che sia remunerativo nel breve periodo gli suggerirei tecnologia e comunicazione. Questi permettono, come dire, di soddisfare il motto “pochi, maledetti e subito”. Se poi vuole comunque un ritorno economico ma magari cercare anche di fare qualcosa di bene alla comunità, sicuramente la green economy può essere il settore su cui cercare di puntare. Intendo con questo una vastissima area che passa anche, se non soprattutto, per ricerca e innovazione. Non soltanto l’applicazione pratica del pannello solare ma tutto ciò che gli può stare dietro: la lotta alla desertificazione, per esempio, o come portare acqua in parti del mondo che attualmente ne sono quasi completamente sprovviste… Questo sarà un settore trainante dell’economia perché apparentemente riesce a mettere insieme tre anelli: la dimensione economico finanziaria, la dimensione etica e quella valoriale.

Lei ha parlato di un’Europa che nel giro di un secolo potrebbe passare dall’essere colonizzante a colonizzata. Colonizzata da chi?

C’è un elemento che meriterebbe di essere approfondito: la nascita di quelli che definisco “stati virtuali”. La popolazione di facebook per esempio è una popolazione che supera o comunque avvicina quella di Cina o India. Può sembrare un follia: ma c’è qualche paese che abbia un ambasciatore presso Google? Forse estremizzo, ridicolizzo per certi versi. Forse accade già e io non lo so, però l’esistenza di questi nuovi soggetti internazionali, i grandi gruppi tecnologici, le comunità epistemiche di cui abbiamo parlato prima, sono tutti nuovi soggetti che interagiscono nel processo decisionale uscendo da quelle che sono le logiche di rappresentatività, di democrazia e quindi per forza diventano degli elementi esterni la cui forza è difficilmente misurabile e comprensibile. Da qui nasce l’esigenza di ripensare non solo l’organizzazione, l’amministrazione degli stati nazione ma anche la partecipazione, i modelli di sviluppo che vogliamo seguire. Torno sul concetto: quando noi vogliamo fare una previsione partiamo dai dati storici e dai trend. I dati storici più o meno li conosciamo. I trend sono stati spezzati dall’arrivo di questa pandemia. Questa rottura può essere trattata o con una semplice ingessatura che ci permette semplicemente di tornare a camminare oppure, dopo l’ingessatura, facciamo una buona riabilitazione, rinforziamo tutti i muscoli, ci prendiamo più cura di tutto il corpo e creiamo qualcosa di più duraturo e stabile. In fondo sono ragionamenti che i padri fondatori dell’Europa hanno fatto 80 anni fa.

Parliamo tutti di cambiamento. Eppure si è ormai accettata l’idea di correre il rischio di centinaia, o migliaia, di nuovi morti in nome di esigenze economiche e di mercato, di riaprire tutto e subito. Non è in fondo la stessa logica della guerra?

Sì. Decisamente sì. È una logica che pospone il bene supremo della vita alla realizzazione di un modello di sviluppo, mi scuso se torno lì, che alla fine deve prevalere a tutti i costi. La mia speranza è che si esca da questo meccanismo per analizzare più in profondità quelle che sono le storture di questo modo di agire. Questa logica di guerra, come ha detto lei, per forza produce poi una reazione postbellica e molto spesso queste reazioni come abbiamo visto possono condurre a un nuovo conflitto. Non abbiamo mai parlato di Africa, per esempio. Se a Milano, o a Bergamo, a Brescia, con i respiratori, la capacità di riconvertire i reparti ospedalieri in quattro e quattr’otto per attivare terapie intensive, abbiamo avuto questo numero di morti, cosa potrebbe accedere nelle parti più povere del mondo? Come ci stiamo attrezzando? Sono convinto che qualora ci fosse una situazione drammatica in certe parti del continente africano nascerebbe una nuova forma di emigrazione; dopo i migranti economici, quelli ambientali, avremmo i migranti della salute. Questo cosa genererebbe in Europa? Una nuova chiusura? Paradossalmente uno degli effetti della pandemia potrebbe essere un lockdown relazionale su scala mondiale: la conferma della logica del Muro di Berlino. Farlo significa creare disparità. Ed è difficile che quando tu hai disparità e fame, non scoppi anche la tensione, è difficile che il muro non venga abbattuto dalla pressione di chi è stato ridotto alla disperazione dalle tue scelte. Vede, questo è ciò che la scienza della previsione può aiutare a fare. Non è una sfera di cristallo, però può aiutare a cogliere quelli che noi tecnicamente chiamiamo i weak signals, i segnali deboli. Non so se ricorda, un tempo quando ascoltavamo la radio usavamo la manopola per sintonizzare bene la trasmissione. Questa immagine noi la utilizziamo per registrare quelli che sono i segnali deboli che arrivano dal cambiamento sociale, cambiamenti dei quali non è possibile ancora tratteggiare le caratteristiche ma che si cominciano a percepire. Io credo che questa pandemia sia esattamente la manopola: abbiamo in mano la possibilità di sintonizzarci o meno su questi deboli segnali che sono emersi. Papa Francesco ci ha dato un’immagine molto bella quando ha detto che una buona formazione poggia su due piedi: uno deve rimanere saldo nella zona di sicurezza ma l’altro deve cercare di esplorare l’ignoto, per consentire di fare un passo in avanti.