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venerdì, Marzo 14, 2025
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Prospettive del postumanesimo che salvi dal declino dell’umano.

Sullo sfondo, le speranze di un nuovo Homo Sapiens. Una questione di fondo è infatti l'ibridazione: un essere umano ibridato dalla tecnologia. È un potenziamento od un vero e proprio cambio di specie?

“Il Domani d’Italia” ha pubblicato il 14 cm, e prima il 12, due articoli molto belli e molto densi di Giovanni Federico e di don Massimo Naro in tema di attualità del postumanesimo. Proprio oggi in un tempo in cui l’intelligenza artificiale viene facilmente veicolata come un sistema infiltrante l’uomo e che minaccia di spogliarlo delle sue proprietà umane, i due interessanti editoriali si addentrano in un oceano estesissimo, dalle acque agitate da correnti sconosciute e da abissi senza fine, dove incrociano Leviatani mai visti.

Una questione di fondo è l’ibridazione: un essere umano ibridato dalla tecnologia. È un potenziamento od un vero e proprio cambio di specie?

Naro dice che per chi ci crede il primo ‘innesto’ avviene con il Battesimo (e che innesto, altro che tecnologia!). Viene conferita la vita divina ad un mortale, si viene congiunti a Dio. Si è così ‘più’ uomini o invece semi-dei? Per cui le difettosità umane non vengono superate in sembianze nuove, superiori, ma espulse e basta,  essendo il resto della persona già compiuto. Un bell’ibrido, no?

Cioè: un essere umano senza battesimo è pienamente umano o no? Da qui: “aggiungere” vuol dire valorizzare quel che c’è, o trasformarlo in altro, o limitarlo, o ancora? Insomma: la compiutezza dell’umano sta in un diverso concetto di umano da quello cui siamo soliti comunemente riferirci? Alla fine: postumano è – o può essere – di più o di meno dell’umano? Vuol dire che ciò che è propriamente umano deve ancora evolvere? Ma per diventare che cosa? E come potrebbe avvenire questo?

Naturalmente il postumanesimo non è il ben più radicale transumanesimo, che è il superamento definitivo del problema uomo, equiparandolo ad una qualsiasi delle entità presenti nell’universo, alla stregua di un armadillo o un geode (quindi insulsità dell’antropologia), ma anche – allora – dotandolo di una mente compatibile con l’hardware di un computer e che proprio attraverso la tecnologia possa accedere al superamento di ogni limite in cui la natura lo ha costretto, morte compresa.

Ci sarà quindi una “intelligenza superiore” che sarà oltre l’intelligenza artificiale e quella umana, intelligenza superiore che si autoalimenterà da sola, sbarazzandosi definitivamente dell’essere umano. Ma al rischio che la condizione umana possa essere classificata dalla nuova etica tecnologica come cronicamente inguaribile (e quindi non funzionale) ci era già arrivata la letteratura, basta pensare a Kafka o a Camon (La malattia chiamata uomo, 1981) o ancora a Karl Kraus (Essere uomini è uno sbaglio, Einaudi 2012), per non parlare di Cioran.

Il tema dei limiti dell’essere umano era già stato affrontato dal famoso etologo austriaco Konrad Lorenz, Nobel per la Medicina nel 1973, e conosciuto soprattutto per l’immagine dei piccoli anatroccoli selvatici che lo seguono credendolo la madre (fu lui a definire il concetto di imprinting, il portato che non è modificabile). Nel 1984 esce per Mondadori una delle sue ultime opere, dal titolo eloquente: Il declino dell’uomo. Similmente al tema di Federico e Naro del superamento della finitezza e dell’evoluzione verso un essere umano radicalmente nuovo, Lorenz vede nell’affacciarsi di un nuovo sapiens – che lui individua in un “sapiens sapiens sapiens”- la possibilità (l’unica, secondo lui) che l’uomo non scompaia dalla faccia della terra, insomma che la specie umana non si estingua (cosa per Lorenz possibilissima).

In fondo gli esseri umani – dice Lorenz – sono presenti sul pianeta da relativamente poco tempo – 300.000 anni, lasciando perdere gli autralopiteci – e quindi non si capisce perché non ci si debbano aspettare ulteriori stadi evolutivi, come peraltro già avvenuto. Ma se questo – dice sempre Lorenz – non è più di tanto certificabile è però invece dimostrabile come oggi i limiti del “sapiens sapiens” appaiano in tutta la loro virulenza, a cui sembra non ci siano antidoti.  Lo si vede dal declino, fino alla scomparsa, di proprietà specifiche della razza umana quali la solidarietà, la compassione, la tolleranza, la creazione di rapporti di mutuo scambio, di cooperazione, di condivisione. Tutte cose – afferma Lorenz – che contraddistinguono la nostra specie, e che oggi si sono fatte sempre più labili e ininfluenti.

E quando sono in declino le specificità di una razza, che l’hanno fin’allora resa distinguibile da ogni altra (insomma: come se i felini andassero perdendo i canini), vuol dire che è in declino la razza, o che almeno un suo ciclo biologico si è concluso. Questo non significa che sparirà, ma significa invece che un suo ulteriore stadio si appresta a prenderne il posto.

“Gli uomini vivono oggi dentro una camicia di forza culturale che ogni giorno si fa sempre più stretta”. Per Lorenz l’uomo di oggi soffre di una “distorsione della realtà”: avendo a che fare solo con cose inanimate, che si possono fabbricare e distruggere, l’uomo di oggi pensa che si possa fabbricare tutto. Questo delirio, secondo l’etologo austriaco, porta a trattare l’ambiente naturale, ed anche gli altri, con incredibile miopia; come se l’aria, una volta resa venefica e puzzolente, la si potesse cambiare con un colpo di tecnicalità.

Lorenz era allora pessimista; secondo il padre dell’etologia moderna questa “traslazione del reale” l’uomo moderno l’avrebbe pagata cara: innanzitutto con una nevrosi diventata endemica (ben altre epidemie – come si sa – hanno preceduto il coronavirus). Soprattutto, per Lorenz, la vera realtà si sarebbe vendicata ed avrebbe alla fine colpito in maniera drammatica proprio “gli uomini in posizione di potere, che dovrebbero essere responsabili delle sorti dell’umanità. Costoro considerano reali soltanto due cose, sulle quali agiscono e che a loro volta li influenzano: il “denaro” e il “potere”.

La cosa, diceva, aveva nel “sistema tecnocratico” la sua sponda e la sua legge, perché veicolava un beota e “incoercibile ottimismo”, derubricando a poesiole infantili ogni tentativo di lettura difforme o peggio alternativa.  Allora, se un postumanesimo ci può attendere questo non può essere altro che una resurrezione che comincia nell’aldiquà, un postimmaginario che abbia e che soprattutto viva un’altra idea dell’essere umano, delle sue relazioni, delle sue possibilità.