Signor Messner ci vuole parlare brevemente del rapporto specialissimo tra Lei e la montagna e – più in generale – tra Lei e la natura?
E’ la stessa cosa: la montagna fa parte della natura, così come noi.
Abbiamo dentro di noi la natura umana che si incontra con la natura esterna. In questo contatto succede qualcosa di meraviglioso dentro di noi, il rapporto con l’ambiente suscita emozioni forti che sono positive a patto che non cerchiamo lo scontro con la natura ma l’assecondiamo e ci adeguiamo a lei.
Io odio un comportamento basato sui gesti di sfida e di eroismo. La natura esige rispetto.
Lei è stato il primo uomo al mondo a scalare tutte le cime oltre gli ottomila metri, raggiungendo tra l’altro la vetta dell’Everest anche in solitaria e senza ossigeno. Di queste 14 vette quale ricorda con maggiore intensità emotiva?
Nel frattempo parecchi hanno scalato – con o senza ossigeno, come lo svizzero Loredan – tutti gli ottomila.
Pochi però hanno avuto la mia fortuna: di affrontare queste esperienze in condizioni ambientali quasi selvagge. Oggi ci sono code di migliaia persone che salgono e scendono, come sulle piste.
Il ricordo più emozionante è legato alla ‘prima volta’: ero giovanissimo, non capivo tutto quello che si doveva fare e dovevo perciò imparare a scalare questa montagna grandissima.
Poi L’Everest in solitaria o la traversata su due 8 mila metri – senza scendere nel fondovalle – sui due Gasherbrum.
Messner, l’Himalaya e l’ Everest, un rapporto leggendario. Quali sentimenti si prova sul tetto del mondo?
Questo sentimento – di essere sul punto più alto del mondo – in genere sparisce subito: lo spazio a disposizione è poco e le condizioni di sopravvivenza quasi impossibili, il cervello manca di ossigeno. Questo mi dà l’occasione per un’osservazione sul come ci si comporta nel raggiungere la vetta: in genere la gente come arriva vuole subito scendere, è un comportamento quasi schizofrenico, non riesce a vivere la condizione particolare in cui si trova. Si fa una fatica incredibile a salire e poi – arrivati sulla cima – si vuole quasi fuggire, tornare a quella che ci sembra la normalità, ci si sente quasi prigionieri di quel traguardo raggiunto.
Naturalmente al livello degli ottomila non esiste godimento o ‘climax’: ci si sente soli, le condizioni di permanenza sono impossibili. Chi immagina altro fa solo della fantasia.
Delle Sue imprese noi vediamo, come spettatori, gli aspetti più eclatanti e spettacolari e immaginiamo l’intensità delle emozioni. Ma Lei che ha conosciuto la durezza delle arrampicate, l’inclemenza delle avversità atmosferiche, lo sforzo di adattamento del corpo e della mente alle condizioni estreme, come spiega il senso umano di questa avventura che richiede non comuni doti di resistenza alla fatica, forte motivazione, carica agonistica, volontà oltre i limiti immaginabili, dura preparazione atletica e sacrificio?
Prima di tutto occorre trovare un senso a queste esperienze: se volessi stare tranquillo resterei in fondovalle. Noi andiamo ad affrontare rischi enormi, compreso quello di morire e questa è schizofrenia pura, però lo facciamo. C’è una forte carica motivazionale.
Però c’è una dimensione più interessante di cui non si parla mai e non si vede, che resta nascosta: una madre che aspetta, un padre che non sa dov’è il figlio, uno che attende il ritorno di chi è partito.
Un piccolo aneddoto: io ho portato mia madre in aereo, in Nepal, verso l’Everest. Lei teneva chiusi gli occhi fino a quando io ho detto: “non farò più queste montagne”. Allora li ha riaperti e ha goduto la vista di quello spettacolo.
Vede Signor Messner, io ho una mia teoria: per ogni Ulisse che parte ci deve essere una Penelope che aspetta e non so se ci voglia più forza e coraggio a partire o a restare.
Lei ha perfettamente ragione, concordo totalmente: questa dimensione esistenziale non è mai stata discussa o approfondita. Si guarda all’eroe che parte e non si considera la sofferenza di chi, restando, ne aspetta il ritorno. Le dimensioni umane nascoste sono più interessanti di quelle trionfalistiche.
Viaggiare, conoscere usi e costumi dei popoli, vivere a contatto con la natura, attraversare i ghiacciai dell’Antartide, i deserti, scalare le montagne più impervie e difficili, raggiungere ogni angolo del pianeta mettendo alla prova se stesso, spinto dal desiderio di conoscere e di vivere intensamente le emozioni di una libertà senza confini.
E’ Reinhold Messner l’Ulisse del nostro tempo?
E la sua Itaca è il Museo antropologico del Castello Juval a Naturno, dove si conservano le testimonianze delle Sue imprese?
Io non mi ritengo un Ulisse, anche se ho affrontato con fortuna le mie esperienze verso l’ignoto.
Oggi c’è più sport che avventura.
Di questo paragone mi riconosco più nell’Ulisse che torna, piuttosto che in quello che si allontana.
Infatti ho portato con me un know how, i ricordi dei miei viaggi e li ho messi disposizione della comunità, nel Museo di Juval. La mia Odissea consiste nell’aver vissuto, sofferto, affrontato esperienze estreme e condividerne i frutti con gli altri.
Possiamo leggere nel Suo stile di vita anche l’invito ad un rapporto più amichevole con la natura, un monito a chi la deturpa, la rovina e la distrugge con una presenza chiassosa, invadente, sacrilega?
Ogni volta che Lei si cimentava in una delle Sue leggendarie imprese ma forse ancora adesso quando attraversa i silenziosi boschi della Sua terra, riusciva e riesce a dimenticare gli aspetti più negativi della vita urbana, del frastuono del mondo, per immergersi anima e corpo nella realtà che più ama?
La natura è sempre nuova, imprevedibile, creativa. L’uomo pensa di sottometterla mentre dovrebbe capire che è lei ad essere molto più grande e più forte di lui. Io scrivo queste cose nei miei libri, senza idealizzare: tento di capire la natura, avendola vissuta in molti suoi aspetti, per farla conoscere agli altri.
Oggi viviamo in una società del consumo di tutto: anche la salita dell’Everest è un bene di consumo da raccontare nel bar sottocasa.
E’ allora d’accordo con il regista Ermanno Olmi quando sosteneva che dovremmo partire tutti dalla cura del nostro orticello, per riavvicinarci in modo amichevole e con il senso del limite, alla natura?
Non solo sono d’accordo ma mi comporto così. Ho un maso autosufficiente dove produco tutto ciò che mi serve per essere autonomo, con la mia famiglia (pane, frutta, verdura, anche il vino).
Se ci fosse una crisi economica ancora più grande io mi ritirerei definitivamente a vivere nel maso in modo autosufficiente, come accadeva 200 anni fa..
Nessuna assicurazione o liquidazione, anche dopo 40 anni di lavoro, vale il pezzo di terra che hai davanti a casa tua: questo mi darebbe una sicurezza che nient’ altro mi potrebbe dare.
Credo che a uno come Lei – abituato a giorni e giorni di solitudine e di riflessione interiore per misurare le forze e concentrarsi sul gesto atletico – non sia certo mancato un rapporto diretto con il silenzio che quelle circostanze Le imponevano.
Messner è amico del silenzio? E’ per Lei solo fonte di meditazione, di consolazione o a volte di ansie e inquietudine? Che cosa si prova ad essere così a lungo soli con sé stessi?
La natura – anche nel deserto dei Gobi in Asia, 2000 km di percorso – ha una sua voce, una musicalità.
Io sto bene lontano dallo stress, dai telefonini, dalla radio, dalla Tv, dalla gente che alza la voce.
La sabbia, il bosco, il vento mi parlano: si crea un rapporto fisico e spirituale tra la natura fuori di me e quella che è in me.
Ricordo che qualche anno fa ero stato chiamato a tenere una relazione ad un convegno sul silenzio, in Trentino. Quando toccava a me parlare, mi ero alzato e per un’ora avevo portato le centinaia di persone presenti, a camminare nel bosco, in mezzo alla natura. Quello mi sembrava il modo migliore per parlare, descrivere e apprezzare il silenzio. Ricordo che tutti furono contenti di questo.
La Sua vita, la Sua determinazione, le Sue sfide vinte e ripetute ma anche la Sua prudenza e il senso della misura in tutte le cose sono la dimostrazione che volontà, determinazione, impegno, sacrificio sono i mezzi che ci consentono – in ogni circostanza dell’esistenza – di affrontare a viso aperto la realtà, la prova che “ce la possiamo fare”.
Quale insegnamento di vita vuole consegnare Reinhold Messner alle giovani generazioni?
Prima di tutto i giovani devono capire che possono reinventare il mondo: per farlo devono entusiasmarsi, realizzare un progetto di vita, seguire la propria strada, darsi una meta, essere motivati, perseguire un sogno.
Non serve impegnarsi per affrontare gare che facciano vincere premi: occorre ritrovare la forza interiore, che è soprattutto una forza spirituale.
Oggi è il tempo del culto del corpo, del fisico perfetto: eppure conta molto di più la volontà, la determinazione interiore, la voglia di farcela.
E’ la forza morale che ti spinge oltre le tue possibilità: cresci se ti identifichi con quello che vuoi fare.
Occorre una forte motivazione spirituale.