Presidente Bertinotti, a giudizio di molti stiamo vivendo una lunga fase di transizione: nella cultura, nella società, nei valori propri della convivenza civile, nelle relazioni personali, a scuola, in famiglia, nelle istituzioni. Come orientare il timone per uscirne fuori? Da dove possiamo cominciare? E che messaggio di incoraggiamento e di speranza possiamo dare ai giovani che vogliono impegnarsi nella società civile per progettare e costruire un mondo migliore? Mi interessa in concetto di ‘bene comune’: è un fine effettivamente perseguibile?
Il bene comune è un fine perseguibile in ogni tempo e in ogni parte del mondo: occorre distinguere il tentativo di perseguirlo dalla possibilità di raggiungerlo. In ogni caso è già abbastanza significativo che questa definizione abbia subito una modificazione che gli fa preferire il plurale “beni comuni”, che sono una cosa importante: si pensi alla grande questione dell’acqua che impone una modificazione profonda al modo di pensare all’utilizzo delle risorse o – nei processi di privatizzazione – alla riscoperta del bene della comunità. La pluralizzazione è anche indicativa di una sorta di preoccupazione sull’incapacità, in questa fase storica di perseguire l’obiettivo ambizioso “del bene comune”. Il mio punto di vista è molto pratico: io penso che negli ultimi venticinque anni sia avvenuta una grande “controriforma”, sul piano mondiale, su scala europea e nazionale. I trent’anni ‘gloriosi e virtuosi’ della Repubblica italiana, pur in mezzo a drammi e conflitti anche gravi, successivi alla vittoria sul nazifascismo e all’approdo alla Carta Costituzione sono stati seguiti – nell’ultimo quarto di secolo – da un’insieme di pratiche, comportamenti, leggi, accordi che sono andati contro l’ispirazione e lo spirito originario della nostra Costituzione che era invece profondamente segnata dall’idea di bene comune. La prima condizione per ripartire è prendere atto di questa durissima verità: che siamo all’interno di un ciclo controriformatore nel quale la dignità della persona, il valore della natura, la condizione delle lavoratrici e dei lavoratori sono stati schiacciati dal predominio del ‘mercato’. In questa condizione la politica è entrata in una crisi drammatica e dunque il problema che oggi si pone in Europa è quello della ricostruzione, della reinvenzione della democrazia e di un diverso modello sociale. Ma la condizione per ricominciare è di avere il coraggio di guardare in faccia la realtà.
Ciò che sta dicendo – Presidente – mi fa ricordare le parole del filosofo Galimberti e del sociologo Acquaviva: la sudditanza della politica all’economia e al pensiero-che-fa-di calcolo e la deriva minimalista di una politica che si preoccupa solo “dell’ovvio”…..
Ciò che ha pesato è stata la sconfitta del ‘900. Il ‘900 ha visto configurarsi una ‘scalata al cielo’, la rovina di questa ascesa, il suo fallimento e la restaurazione capitalistica.
Il Suo impegno politico continua con la direzione della Rivista “Alternative per il socialismo” che esprimendo il significato di un ”laboratorio di idee e iniziative” – facendo tesoro della storia e delle esperienze – intende rilanciare un progetto di tipo ideologico- culturale. Che cosa resta del passato, della militanza, degli schieramenti, delle alleanze e dei distinguo e quali reali alternative sembrano praticabili? Personalmente non credo alla teoria del cominciamento, all’anno zero, dal quale si riparte per cambiare tutto. Eppure avverto la consapevolezza di vivere in un’epoca che pone l’esigenza di rilanciare un nuovo umanesimo, che esprime l’emergenza di ridisegnare i contenuti antropologici dei concetti di libertà e dignità. Condivide?
Condivido in larga misura ma penso che la nozione da cui partire sia la crisi della politica e – all’interno di questo processo, contemporaneamente – alla crisi della sinistra politica in Europa. In ciò distinguo questa nostra esperienza dalla condizione della politica e delle sinistre nell’America Latina. Secondo me oggi l’Europa vive una crisi drammatica della politica della sinistra e della democrazia. Questa considerazione impone – per progettare il futuro – una rivisitazione del passato: non c’è futuro senza passato. Tuttavia su questo punto occorre fare chiarezza. Noi abbiamo assistito a due fenomeni opposti ma entrambi disastrosi: uno è stato l’abbandono totale del terreno su cui si era costruita l’esperienza politica della sinistra e del movimento operaio nel ‘900 e cioè l’idea di “uguaglianza”. Dopo il crollo dei regimi dell’Est e l’avvento della globalizzazione questa idea è stata – anche a sinistra – abbandonata come fosse un ferrovecchio, di cui prima ci si liberava … prima si poteva correre sui nuovi lidi della modernizzazione. L’altro errore – opposto- è quello della testarda ripetizione dello schema del ‘900, come se il movimento operaio fosse rimasto lo stesso, integro nella sua storia e nella sua riproposizione, cosa che ha fatto perdere la nozione del cambiamento culturale che stava invece intervenendo. Il problema che la sinistra ha di fronte è lo stesso che il cambiamento del ciclo ci aveva consegnato, il crollo dei regimi dell’Est e l’avvento della restaurazione conservatrice che si è chiamata globalizzazione. Entrambe le strade imboccate sono fallite clamorosamente: occorre allora ripensare a quanto affermava uno dei più grandi, intriganti, critici e originali filosofi del ‘900 – Walter Benjamin- il quale ricordava ai rivoluzionari che per poter precettare il futuro bisognava realizzare ciò che lui definiva “il balzo di tigre” e cioè la riappropriazione, per usare un suo termine ..”la rammemorazione” della cultura dei vinti-giusti, allo scopo di poter riaggiornare una rielaborazione complessiva capace di mettere i “nuovi ultimi” in condizione di riprendere il cammino.
Consideriamo alcune derive a forte caratterizzazione negativa che contraddistinguono da tempo il quadro politico: la personalizzazione, a cominciare dalla egemonizzazione dei partiti stessi, lo scontro tra i poteri dello Stato, la mancanza di progetti condivisibili, l’assenza di un atteggiamento pacato di confronto e di dialogo, come spesso richiamato dal nostro Presidente della Repubblica. Che cosa rende rancoroso e inconcludente questo dibattito centrato sulla sistematica demonizzazione degli avversari, dai toni alti e conflittuali, lontano dai bisogni reali del popolo?
Indubbiamente la crisi della democrazia, come fattore scatenante. E la progressiva trasformazione della nostra società da “società democratica” a “società oligarchica”, ciò che ha prodotto una spoliazione delle istituzioni e della politica che sono progressivamente occupate da un linguaggio, da modalità, da strutture che sono quelle tipiche del mercato. Il mercato – espandendosi – occupa, nella sua capacità diffusiva, gli spazi vuoti lasciati dalla politica. C’è poi l’aspetto critico della democrazia rappresentativa: le assemblee elettive, il Parlamento sono mere casse di risonanza dei Governi. La politica è stata progressivamente espropriata e sostituita dal problema del “governo” e della “governamentalità”: da un lato c’è una strisciante, oligarchica tecnocratizzazione del potere e dall’altro una superfetazione della personalizzazione, della spettacolarizzazione che l’ha coperta e nascosta. Costruendo una sostanziale impermeabilizzazione dei luoghi di formazione delle decisioni e delle azioni rispetto ai movimenti della società civile: qui siamo già oltre il gap tra “paese legale” e “paese reale”. Penso che la rivincita mercatista e della logica d’impresa legate al come il capitalismo europeo ha affrontato prima la globalizzazione e poi la sua crisi, ha sostanzialmente teso a rendere ‘ineluttabili’ le scelte di politica economica e di politica sociale, le ha presentate come necessarie, mistificandole. Questa presunta ineluttabilità ha portato alla morte della democrazia. Ecco perché i Governi – a loro volta plasmati da organismi sovranazionali (la BCE, il FMI, l’OMC e sostanzialmente la finanziarizzazione) – hanno plasmato le forze politiche. Guardare la crisi della politica dal buco della serratura della sua – peraltro esistente – corruzione interna è prendere lucciole per lanterne: in questo modo non si vede che “l’assassino” della politica non è questo o quel politico pur deplorevole ma è invece l’affermazione schiacciante del mercato sulla politica.
Ci sono alcune emergenze – peraltro rinnovate dalle scelte di inclusione dei Paesi che hanno recentemente aderito all’Unione – che ci riguardano come cittadini della Comunità Europea: la sicurezza sociale, i focolai di fondamentalismo, il terrorismo internazionale, i processi di globalizzazione economica, la ventata di recessione che sta attraversando l’intero pianeta, la concorrenza dei Paesi dell’Est, la cooperazione internazionale, i flussi migratori extracomunitari, il mercato del lavoro, le risorse energetiche, il cambiamento climatico, la formazione delle giovani generazioni e della futura classe dirigente. Si ha tuttavia la percezione che queste problematiche restino marginali rispetto ad una elaborazione progettuale della politica del nostro Paese e siano avvertite nel senso civico collettivo solo come pericoli, emergenze, salti nel buio. Ci sarà uno spazio per superare questa assenza, in termini di dibattito, di responsabilità e di proposte?
Intanto occorre selezionare i temi, il tutto equivale a niente: per essere efficaci, occorre individuare un ‘bandolo della matassa’, capace di restituire un punto di vista critico sull’esistente, una chiave di volta per leggere e interpretare bisogni e progetti. E’ questo il lavoro che manca: siamo tutti molto descrittivi ma incapaci di elaborare delle sintesi. Io credo allora che oltre gli assemblaggi bisogna riagguantare come bandolo della matassa, come snodo centrale il grande tema del lavoro, che è il prisma entro il quale si può vedere la crisi di civiltà e di cittadinanza che ha investito l’Europa. La disoccupazione, la precarietà, la flessibilità come richiesta di puro adattamento della condizione umana al mercato e al nuovo ‘macchinismo’, sono il banco di prova entro il quale si possono vedere le altre mille facce del prisma. Operazione necessaria che, invece, proprio non accade perché sul tema del ‘lavoro’ è in atto un’offensiva (si veda l’esempio di Marchionne) attraverso la proposta di nuove relazioni sociali fondate su un’organizzazione della produzione intrinsecamente autoritarie e perciò negatrici dei diritti dei lavoratori, del sindacato, del valore del ‘contratto sociale’. Questa sfida – per poter essere affrontata – deve essere connessa ai molti altri piani su cui avviene oggi questa offensiva per ridurre l’uomo ad una pura appendice del ciclo economico. Una appendice della assolutizzazione della competitività. Si possono indagare allora le nuove figure di lavoratori nell’economia della conoscenza, per ciò che di promettente hanno e per ciò che di alienante mettono in luce e si possono vedere le espropriazioni costanti che la logica del capitalismo produce, come furto della natura, come furto del futuro, come spersonalizzazione. Penso allora che se si vuole ricostruire, si vuole dare una nuova idea di società, occorre disporre di una leva che si identifica nel tema dell’uguaglianza, che trova a sua volta nella questione del lavoro uno degli elementi cruciali. I movimenti che attraversano l’Europa si interfacciano su questi temi ma sono orfani della politica e risultano incapaci di interconnettersi tra loro. Trovo che questo sia oggi il compito della politica: ricostruire una coalizione sui temi del diritto del lavoro.
Nella società del sospetto e dell’indifferenza, dove la corruzione è quasi considerata una consuetudine irreversibile abbiamo bisogno di politici onesti ed esemplari nei loro comportamenti pubblici. E in un mondo dove tutto si aggiusta, si occulta, si dimentica, occorre che il rispetto delle regole e il principio di legalità maturino un nuovo senso civico in tutti i cittadini. Puntare il dito su pochi può essere un demagogico spot elettorale ma alla lunga non paga: davvero la gente è sempre migliore dei suoi rappresentanti?
Capisco il senso di questa critica in nome della ragione etica, che è figlia della migliore cultura liberale – presente oggi anche a sinistra – ma debbo confessarle che a me convince poco. C’è indubbiamente nella storia del Paese una deriva di trasformismo politico, di propensione alla corruzione delle classi dirigenti, alla degenerazione della democrazia. Però io debbo opporre a questo ragionamento la storia: l’Italia della Resistenza, dell’antifascismo, dei grandi partiti di massa, del conflitto sociale, delle grandi costruzioni ideologiche, ha dato luogo per un lungo periodo ad un rapporto tra il paese reale e il paese ufficiale “denso”, anche drammaticamente denso, ad una classe dirigente di tutto rispetto, prima che cominciasse la degenerazione che poi ha portato a tangentopoli, con una severità anche nei costumi, come si può constatare nell’avvio del secondo dopoguerra ed anche ad un processo di realizzazione di cose importanti, basti pensare a cosa è stato l’intervento pubblico in economia, la riqualificazione dell’IRI, il percorso straordinario di esperienze sindacali che ci ha portato fino allo “Statuto dei diritti dei lavoratori” e alla stagione di partecipazione sociale. L’Italia non è sempre stata il paese del trasformismo né delle classi politiche degenerate: è stata cosa diversa a seconda delle fasi e dei cicli e a seconda di quali fossero le egemonie che si alternavano alla guida del Paese. Naturalmente io non nego che il berlusconismo sia un fenomeno specifico che ha fatto lievitare le derive degenerative nel campo della politica., però bisogna chiedersi perché il sistema maggioritario ha prodotto più guai di quanto fosse lecito immaginarsi, bisognerà chiedersi pure perché il sistema dell’alternanza si è in realtà configurato come il generatore di un sistema politico portato alla marcescenza, e come mai in questo periodo denominato della “Seconda Repubblica” i partiti siano diventati un’ombra squalificata di ciò che invece erano stati punti nevralgici della crescita del Paese. La crescita della democrazia in Italia ha una curvatura particolare ma non dobbiamo dimenticare che siamo parte di un fenomeno europeo.
Sui problemi della tutela ambientale ho sentito i rappresentanti di Legambiente e di Green Peace: emerge l’urgenza di scelte sulle fonti energetiche, l’inquinamento, l’acqua per evitare un lento e irreversibile consumo del pianeta. Ma vengono evidenziati anche comportamenti virtuosi, c’è un forte recupero di questo tema nelle coscienze singole e nei comportamenti collettivi. La questione si pone in termini di responsabilità della politica, dell’economia, di scelte strategiche planetarie oppure vale anche – nel suo significato simbolico – la metafora di Ermanno Olmi: ripartire dalla cura dell’orto, dal particolare, da ciò che ci circonda, abituarci a stili di vita più semplici e salutari?
Indubbiamente la critica dei comportamenti, anche per i deficit della politica, è diventata molto rilevante, anche per certe scelte di stili di vita orientati alla logica della società dei consumi. E poi ci sono delle imputazioni culturali di fondo: basti pensare a come la questione del cibo è stata riposizionata nella vita delle persone, alle esperienze di ‘Terra madre’ e Slow Food, alle scelte ecologiste che sono emerse in mezzo a mille difficoltà, al successo della raccolta delle firme il referendum sull’acqua pubblica come – appunto- “bene comune”. Sono affine dunque alla suggestione culturale proposta da Olmi, non avrei alcun aristocraticismo politico per oppormi a questa idea. Detto questo se non si vuole tracciare una riga di fuga che salvi se stesso ma condanni gli altri, si pone il problema centrale e ineludibile di quale modello economico e sociale l’Europa voglia darsi per il futuro. Già Paul Valery si chiedeva se l’Europa voglia essere un’appendice dell’Oriente o avere una sua autonoma collocazione nel mondo . Questa può essere una prima, grande sfida. Oggi ad esempio la questione del Mediterraneo è rinnovata in modo acuto dalle straordinarie rivolte del Nord Africa, dal dialogo tra le democrazie e le civiltà: ciò ripropone il Mediterraneo stesso come grande culla di una possibile innovazione. L’altra sfida è posta proprio dal tipo di modello economico e sociale che l’Europa può avere. Oggi il tipo di sviluppo scelto dalle classi politiche dirigenti e dalle forze economiche dominanti è proprio quello della prosecuzione della linea fallimentare adottata durante l’ascesa della globalizzazione e prodotta – malgrado tutti gli smacchi – nella fase critica della globalizzazione stessa. Questa scelta è assolutamente incompatibile con la democrazia. Infatti ciò che resta del modello sociale europeo viene messo in discussione dalle risposte che vengono date alla crisi. Per tornare a far vivere la democrazia e mettere a frutto comportamenti virtuosi, quello del cambiamento del modello economico e sociale, della riconversione ecologica, del rapporto con il nuovo Mediterraneo, con una nuova gerarchia di produzioni, di servizi e di consumi è il grande tema che la politica ha di fronte. Ma la difficoltà consiste proprio nell’aver considerato “ferri vecchi” le grandi ideologie del ‘900, ciò che rende la politica stessa disarmata rispetto alle emergenze attuali.
Presidente, chiedo anche a Lei di spendere qualche parola per i giovani, in questa epoca di precarizzazione esistenziale e di difficoltà nel mondo della produzione e del lavoro. Quali sono le ragioni per cui vale la pena di rimboccarsi le maniche, di darsi da fare e di sperare?
Credo che ogni generazione le proprie ragioni se le debba trovare da sé. Ciò che direi ai giovani è : “contate sulle vostre forze, non delegate niente a nessuno”. Ciò che sta accadendo oggi nel Nord Africa dimostra che niente è impossibile. Se solo sei mesi fa qualcuno avesse chiesto quale sarebbe stato il destino di Mubarak e Ben Alì, chiunque avrebbe risposto …”la continuità”…dei loro regimi. Invece una rivolta nata su basi drammaticamente economiche, diventata una rivolta di civiltà, il rimettersi in piedi di una nuova generazione affamata di diritti, di lavoro, di uguaglianza, di giustizia…ha abbattuto regimi che sembravano inamovibili e ha rimesso in moto la storia. Io credo che questo contagio possa essere assunto come motivo di una buona speranza.