Intervista pubblicata sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano a cura di Marco Belizzi

Il silenzio, il vuoto, l’immobilità, la stessa sofferenza, piombata nelle vite di tutti gli uomini veramente come un ladro nella notte, sono ormai realtà quotidiane per ognuno di noi. A differenza però di molti di noi, Johnny Dotti, scrittore, pedagogista, imprenditore sociale e docente a contratto di Analisi e gestione di fenomeni sociali complessi presso l’Università cattolica di Milano, ritiene che la vera sfida, per il futuro, non sia trovare il sistema per superarle, queste scomode compagne, quanto essere capaci a non lasciarle andare via. Lui, bergamasco, il virus è stato costretto a guardarlo in faccia, in famiglia, mentre nella cittadina lombarda i lutti si sommavano ai lutti e la morte era, ed è ancora, una sorella piuttosto invadente. Indugiando colpevolmente negli stereotipi, si potrebbe dire che, da bravo bergamasco, Dotti sia un uomo animato da una sana idiosincrasia per gli orpelli, un amante della concretezza e con un malcelato gusto nello scardinare gli schemi. Insomma, uno di quegli intellettuali che normalmente vengono definiti scomodi. Almeno da chi ritiene che la vita sia, o debba essere, una comoda passeggiata fra le proprie, granitiche, certezze.

In questo tempo di grandi dubbi sembra che l’unico punto fermo sia il seguente: non saremo più gli stessi. Qualcuno comincia a pensare che sia già un luogo comune. Che ne dice?

Dico che non è un automatismo. Dico che questa situazione interpella profondamente la nostra libertà e la nostra responsabilità. Non c’è alcun automatismo in virtù del quale siccome c’è stato questo trauma, allora c’è una trasformazione. I traumi per trasformarsi in cambiamento, in cose nuove, hanno bisogno anzitutto di essere nominati, accolti, accettati. E poi hanno bisogno di essere interpretati. Mi sembra che i segnali che arrivano ancora adesso, mentre siamo in questo difficile momento, siano ambivalenti, come quasi tutte le cose della vita dell’uomo, per altro. Dipenderà da come la nostra libertà risponderà a queste sollecitazioni, a come sappiamo leggerle. Se si vede solo l’aumento della richiesta di sicurezza o un maggiore intervento delle autorità affinché ci garantiscano il futuro, è chiaro che andremo verso una regressione statalista da una parte e l’aumento della tecnica statalista dall’altra.

È la preoccupazione che comincia a farsi largo in molti… Intellettuali, analisti, politologi, fra questi, di recente, l’israeliano Yuval Noah Harari, mettono in guardia contro il pericolo che politici irresponsabili, che fino a ieri hanno screditato scienza, autorità pubbliche e mezzi di comunicazione, possano essere tentati di imboccare la strada dell’autoritarismo, sostenendo che non si può essere sicuri che i cittadini facciano la cosa giusta di fronte a un’emergenza come quella che stiamo attraversando, perché d’ora in poi vivremo con il pericolo che si ripeta…

Naturalmente non me lo auguro, ma è un’ipotesi possibile. È chiaro che se i confini dei continenti si richiuderanno andremo verso situazioni in cui bisognerà ripensare a mercati economici locali, nei quali paesi come l’Italia, per esempio, che vive di esportazioni, non so cosa potranno fare. Se lo chiede a me, io suggerirei, suggerisco a me stesso, a chi voglio bene, agli altri, di ripartire da ciò che ci sta dicendo la nostra interiorità, la nostra spiritualità. Io credo che la componente intellettuale, la componente sensibile, che ci aiutano a “dare le forme”, debbano farsi ispirare un po’ di più da quello che lo spirito ci dice di fronte a questi fatti, altrimenti temo che ciò che abbiamo appreso negli ultimi 300 anni continueremo a ripeterlo, per cui ci sarà una deriva tecnocratica, ci saranno forme di razionalismo esasperato, forme economiche sempre più fredde. Io non lavoro per questo. Perciò dico che oggi lavorare per il futuro significa mettersi nella condizione di generarlo, altrimenti le dichiarazioni ottimistiche sono un po’ da mago Otelma, con tutto il rispetto.

Il mondo si trova a sperimentare un gigantesco mea culpa, certamente ispirato dalla sofferenza e dalla paura ma non si sa ancora quanto onesto e fecondo. Definire ciò che dovremmo essere sembra francamente abbastanza facile. Ma sappiamo come diventarlo?

Intanto è emerso in maniera lampante che siamo fragili. Continuiamo ancora con gli stessi comportamenti, ancora nel XXI secolo, quando malgrado tutta la nostra potenza, i nostri grandi strumenti di comunicazione, l’uomo è fragile, io sono fragile, lei è fragile, la mia famiglia è fragile, l’Italia è fragile. Fino a ieri quello che abbiamo fatto è provare a riparare questa fragilità. Viviamo circondati da terapie: appena emerge un problema dobbiamo risolverlo. Questa non è più la strada. E riconoscere la fragilità, nelle mie parole da cattolico, significa “mutualizzarla”, incontrare l’altro, incontrare la fragilità dell’altro. La “soluzione” sta nella condivisione. Del resto, questo nella storia ha portato alla scoperta delle grandissime forme dell’economia: banalmente le cooperative, il misericordie, le banche popolari, le banche di credito cooperativo. Sono tutte forme di mutualizzazione del bisogno. La novità oggi sta nel fatto che dobbiamo mutualizzare bisogni diversi tra persone diverse. Però la domanda di fondo è questa: è la fragilità un principio per cui operare? Voglio dire: non perché sia evitata o superata, ma perché diventi generativa (perché è da lì che viene fuori la vita)? Io penso di sì, lavoro perché sia così. La tentazione diabolica di superare di nuovo la fragilità con la potenza è dietro l’angolo. La si vede già: troveremo un altro vaccino e saremo a posto; risistemeremo i conti pubblici e saremo a posto. Per carità, sono cose importanti, i vaccini e i conti pubblici. Ma non sono quelli che ci portano in una civiltà umana più piena, più bella, più giusta. Quella è la strada di prima. E la strada di prima porta a dove siamo adesso.

Siamo stati tutti proiettati in una dimensione ristretta, nella quale l’orizzonte che si presenta davanti ai nostri occhi non va al di là spesso di una finestra, di un cortile. Per contrappasso siamo esortati, quasi condannati, a ridisegnare l’avvenire. Con quali strumenti?

Faccio un esempio: un’altra grande evidenza di oggi è la solitudine. La solitudine è un valore: non è una cosa da evitare. Il problema semmai è che non diventi isolamento. Affinché sia un valore però serve la capacità di vivere un viaggio e un mondo interiore. Lo dico con parole mie, visto che mi sono interessato molto a san Giuseppe: serve vivere il mondo invisibile, che è tanto reale quanto quello visibile. L’invisibile è una dimensione fondamentale della realtà. La solitudine del resto è un riconoscimento dell’altro. Se non sapessi che c’è un prossimo, non ti potresti definire “solo”. Ora, fino a ieri questa benedetta solitudine è stata completamente allontanata. Tutti siamo scappati dalla solitudine. Abbiamo cercato un mondo di emozioni, di consumi, facendo finta che non esista. Questo è il principio di base per rimodellare forme comunitarie, di relazione con gli altri. Se non si fa questo torneremo tutti a correre come dei criceti dentro lo gabbia, che è quello che abbiamo fatto finora.

Una gabbia molto tecnologica…

Noi abbiamo vissuto, in particolare ultimamente, in un tempo binario. Il mondo digitale è molto bello, molto interessante. Ma ha un grande limite: è 0 e 1. E ha un bisogno costante di essere riempito. Aborre il silenzio. Il vuoto invece è un vuoto costitutivo, insieme al silenzio, per dare forma alla vita. Perché le parole vengono dal silenzio e tornano al silenzio. Non c’è parola feconda che non viene dal silenzio. Se lei sta di fronte alla mamma o a un amico che sta morendo, il suo silenzio rende profonde le sue parole, anzi invita anche al suo silenzio. La stessa cosa negli amanti, che generalmente sussurrano. La parola ha una dimensione profondissima col silenzio. È vero che nel Vangelo c’è scritto che in principio era il logos. Ma “il” principio non era il logos, era il silenzio. Questo ci dà delle indicazioni sociali? Delle indicazioni politiche? Delle indicazioni economiche? Assolutamente sì. Banalmente, bisogna dare peso alle parole. Le parole non sono termini che indicano qualcosa, le parole hanno il potere di far nascere e uccidere le cose. Pensi cosa vuole dire questo nella politica, pensi nella relazione con i figli, con le persone cui si vuol bene. Recuperare il silenzio nelle relazioni umane vuol dire recuperare la parola. Questo è un invito enorme che ci viene oggi dalla realtà, da tutta questa morte che ci circonda.

Le immagini delle strade vuote, delle piazze deserte, sono bellissime per un verso ma dall’altro comunicano più di ogni altra cosa il senso del nostro fallimento. Eppure, nonostante i divieti, cominciano di nuovo a girare immagini di persone che si assembrano nei viali consueti dello shopping, nei mercati all’aperto. È un insopprimibile bisogno di socialità o un incontrollabile terrore del vuoto?

Noi abbiamo giocato a riempire tutto. Il consumo compulsivo cui siamo stati allenati negli ultimi cinquanta anni, non è stato altro che una grande fuga dal vuoto. Noi non lo reggiamo, il vuoto. Abbiamo bisogno di riempirlo costantemente. Questo tempo ci chiede invece di attraversarlo, di farcene attraversare. L’immagine del Papa nella piazza San Pietro deserta è un’immagine forte perché trasmette il coraggio di attraversare il vuoto della vita. Le forme sociali, le forme umane, le forme affettive, nascono tutte dal vuoto. Il desiderio non si accende se non c’è il vuoto. Le stelle non riesco a vederle, se c’è di mezzo il fumo, devo avere un cielo sgombro, devo essere al buio. Questo dice tante cose, sui tempi del lavoro, sui tempi del riposo, sui tempi della meditazione, sui tempi che non sempre devono essere vissuti di corsa, accelerati, quando ogni tanto bisogna andare più lenti. Vede… vuoto, silenzio e solitudine sono forme dell’“abitare”. Se lei vive in un “alloggio” è evidente che non può vivere nel vuoto, nel silenzio, nella solitudine: impazzisce. “Alloggio” è una parola che abbiamo preso e applicato artificialmente alle case per gli uomini. Fino al secolo scorso si usava per i soldati e per gli animali. Non ci può essere un “alloggio” per una famiglia. Ci deve essere una “casa”, che contempli degli spazi, delle relazioni, che contempli un dentro e un fuori. Lo stesso vale per il termine “appartamento”, che viene dalla tradizione imperiale portoghese e francese. Ma gli appartamenti in quel caso stavano dentro alle regge. La casa invece non è un appartamento e non è un alloggio: è il luogo e il tempo in cui le nostre relazioni fioriscono perché sono custodite come in un nido ma crescono perché vengono messe dentro una rete. Perché la casa, come la famiglia, è contemporaneamente un nido e una rete. I nostri paesi, un tempo, erano costruiti rispondendo a questo concetto: la piazza, i vicini, le case da ringhiera, le cascine. Guardi, le cose che sto dicendo sono assolutamente “tradizionali”. Ma non hanno a che fare con l’antiquariato, hanno a che fare con il passaggio di un principio. Ora noi dobbiamo consegnare questi principi, trasformati, alle nuove generazioni. Ma senza interiorità non riusciremo a farlo. Dico una cosa in più: negli ultimi anni si è fatta confusione tra beni pubblici e beni comuni. I beni comuni non sono beni pubblici. Per questo io temo una statalizzazione. Dire che la nostra vita è legata a quella degli altri non vuol dire tornare a immaginare uno stato alla Hobbes, che impone le proprie leggi a tutti con la forza e la violenza. Significa fare un passo avanti in senso democratico. I beni comuni, il welfare, la sanità, la scuola, sono beni di tutti. Le forme per dargli vita, perché tutti ne partecipino, non sono per forza la fiscalità generale, la burocrazia, le leggi. Sono anche forme di autorganizzazione, di autolimitazione del profitto, di generazione e distribuzione del valore dentro la libertà. Bisognerebbe riprendere don Sturzo, quello che diceva a cavallo della Grande guerra e dell’epidemia di spagnola (guarda caso), così come noi siamo fra la grande crisi economica del 2007 e ora la pandemia. Per questo le parole contano. Invece a volte siamo un po’ banali, superficiali. Vale anche per me, naturalmente…

Riflessioni che dovrebbero fare parte da sempre del patrimonio intellettuale di un cattolico…

I cattolici sono indietro: da molti anni sembra non siano in grado di generare più nulla; sono completamente appiattiti sulla legislazione, quando va bene, e dall’altra parte sulla conquista del potere. Quella non è la storia cattolica. Dicevano i padri della Chiesa: fermati e arriverai prima. Questo non vuol dire non impegnarsi. Ma c’è una bella differenza tra il produttivismo e il generare. Generare è una postura che richiede il desiderio di mettere al mondo, richiede il prendersi cura. E il lasciare andare ciò di cui ti sei preso cura. Il produttivismo, che è quello che determina la nostra incapacità a stare fermi, spinge a moltiplicare indefinitamente le cose, ha a che fare con il nichilismo. Certo non con la salvezza, che invece ha a che fare con la pienezza della vita.

Ricorda da vicino la dicotomia produrre-consumare…

Un’altra dicotomia binaria. Per un trinitario come me, gli ultimi 30 anni sono stati un disastro. Non possiamo continuare a produrre per consumare. Io credo al generare: cosa vuole dire questo nelle forme economiche, nelle forme sociali, nell’educazione? Io spero che andremo oltre il tempo dello studio e del lavoro. C’è un tempo in cui si studia, si studia, si studia… E poi c’è un tempo in cui si lavora. Questa non è la nostra tradizione. Prima che scoppiasse l’epidemia, ho avuto la fortuna di vedere una mostra su Raffaello. Raffaello muore a 32 anni e non è che prima si è messo a studiare e poi ha fatto quello che ha fatto. Caravaggio, che è nato dalle mie parti: non è che prima ha studiato e poi si è messo a fare il Caravaggio. Michelangelo. Leonardo. Vado avanti? Lucio Dalla. L’idea che prima studi così poi troverai lavoro la trovo un’idea idiota. Vale fino all’università, mondo di cui tra l’altro anche io faccio parte. Questo tempo non ci dice di riconnettere le cose, non ci richiama al simbolo. Certo, bisogna sempre studiare, durante tutta la vita. Ed è importantissimo avere un tempo particolarmente dedicato allo studio. Ma non si può far andare avanti i ragazzi fino a 25 anni. È una follia. A proposito di perversioni sociali: in Italia si esce di casa a 34 anni, le sembra normale? E perché non si esce? Perché la casa è stata un “appartamento”, perché siamo ossessionati dalla certezza e dalla sicurezza. Però vede, questo tempo è ambivalente: ci può spingere ad usare forme più profonde, più umane, o ci spingerà a rinchiuderci di più, perché la paura fa l’effetto contrario.

Personalmente, cosa le sta insegnando questa emergenza?

La dico così: mi è apparso più evidente che se non includo la morte nella mia vita non vivrò. Che non posso rimuoverla. E che se voglio chiamarla sorella, la morte, devo trovarci un senso profondo. La morte sfida la mia vita. Ma non nel senso di vittoria o sconfitta: o diventi di più quello che sei o lo diventi meno. Poi un’altra cosa. Io vivo in una piccola comunità di famiglie: ringrazio Dio di aver visto i figli reagire con intelligenza. Ho imparato che i ragazzi hanno molto, dentro il cuore, se sono sfidati da cose grandi. I miei tre figli, il quarto non vive con noi, hanno reagito molto bene. Questo mi ha dato molta fiducia. Non sono degli “sdraiati”, ecco. Li ho visti far da mangiare, darsi da fare per la madre che stava male, darsi da fare per gli altri, pulire, andare a fare la legna, usare l’ironia. Cerco di volere molto bene alle nuove generazioni… forse anche perché c’è molta gente che ha voluto bene a me quando ero piccolo. Bisogna avere il coraggio di sfidarli i giovani, perché la vita è un dramma che ti sfida. Per questo mi arrabbio quando vedo sistemi educativi binari che separano il tempo della responsabilità dal tempo dell’apprendimento. È un errore enorme.

E il più grande errore del “vecchio mondo”, ammesso che ce ne sarà uno nuovo?

L’aver separato il visibile dall’invisibile e l’aver separato il tempo dall’eternità. L’uomo è un essere tempiterno e la realtà è fatta di visibile e invisibile. Io sono stupito dai miei fratelli credenti. Noi questo nel “Credo” lo diciamo ma non sappiamo quello che diciamo. Non diciamo “creatore di tutte le cose visibili e invisibili”? Ma noi non ci crediamo più. Crediamo che le cose invisibili siano quelle che prima o poi al microscopio diventeranno visibili. Ma non è così. Il grande peccato da cui proveniamo è la separazione. Diavolo, “diaballo”, vuol dire separatore. Symballo vuol dire ciò che unisce. Noi abbiamo bisogno di azioni simboliche, di pensieri simbolici, di parole simboliche. La parola “simbolo” oggi è rubricata come “significato”, “segno”. Invece il simbolo è vivente. La parola è simbolica, l’azione è simbolica. Abbiamo bisogno di azioni politiche simboliche, di azioni economiche simboliche, di azioni spirituali simboliche, di azioni culturali, simboliche. Qui siamo molto miseri, molto scoperti. Corriamo dietro alle procedure, ai processi, all’analisi. Questo è il grande peccato. Non perché le procedure, i processi e le analisi non siano importanti, ma non possono essere l’unico sguardo sulla realtà.

Abbiamo sentito tanti discorsi, tante dichiarazioni, tante storie, in queste ultime settimane. C’è una frase che l’ha colpita di più, negativamente e positivamente?

“La scienza ci salverà”: la trovo una frase idolatrica, stupida, contro la stessa scienza. La scienza è un metodo di osservazione della realtà. Invece la stiamo facendo diventare “la” verità. Lo trovo un grande errore. Tra l’altro con interessi enormi dietro, perché è chiaro ormai che si parla di tecnoscienza e di tecnoscienza-business. Il grande dramma in Lombardia è stato questo. La politica sanitaria che è stata fatta nei ultimi 35 anni in maniera assurda, lasciando tutti i territori scoperti, ha portato dalle mie parti, a Bergamo, a migliaia di morti, dico migliaia, almeno il triplo di quelli dichiarati. Quanto accaduto è conseguenza della centralizzazione delle operazioni tecniche, che consente grandi affari. La frase invece che mi ha colpito di più in positivo è quella legata a una fotografia che veniva da un vicolo di Napoli, nella quale c’era un cestino appeso con un foglio, dove c’era scritto: “Chi può metta, chi non può prenda”. In questa semplice affermazione popolare c’è quasi tutto. C’è il mistero della bellezza di chi siamo e di quello che possiamo essere.