Ripensare il tempo come storia. Europa, cristianesimo e geopolitica in un libro di Eugenio Mazzarella. Recensione dell’Osservatore Romano.

 

“Il richiamo di Mazzarella – scrive l’autore nelle conclusioni – a un diverso sentire antropologico rinnova invece la potenza di una visione – ma direi meglio di una coscienza – che può ancora attraversare lo spazio del conflitto del nostro mondo. Come la testimonianza che è possibile pensare ancora, e costruire un governo multilaterale, nel mutuo rispetto delle potenze mondane”, alla luce di quella potenza irriducibile al mondo, ma che fa andare avanti il mondo, che è la presenza e il destino di bene di ogni essere umano”.

 

 

Costantino Esposito

 

Il cristianesimo ha inventato la “storia”: questo è un dato di fatto, più che una valutazione di parte. Basti pensare a un autore come Agostino d’Ippona, e a come egli abbia pensato lo svolgersi delle vicende umane nel tempo: non più solo come il succedersi delle azioni (tentativi, vittorie, sconfitte) per raggiungere e mantenere il più possibile il potere sugli antagonisti, sui casi della natura, infine sul tempo stesso che porta alla morte. Il racconto di questa successione degli eventi fino ad allora — pensiamo alla grandiosa storiografia greca e romana — mirava in definitiva a individuare il meccanismo naturale della virtù politica, sempre in lotta per imporre la propria impronta sull’irrazionalità del destino, sull’indifferente violenza del caso. Con il cristianesimo il tempo, dall’essere l’enigmatica ruota del divenire naturale, diventa esso stesso storia. E lo diventa non grazie alla narrazione fatta dai vincitori del caso, ma come dall’interno, perché un nuovo principio si afferma, e diviene lentamente esperienza vissuta degli esseri umani. Il Lògos, il principio — quello che per essenza era pensato fuori dal tempo — entra proprio nel tempo, non per sottometterlo ma piuttosto per sottomettersi a esso, perché accade, avviene in forma temporale, umana. Solo dall’interno del tempo si può vincere la violenza impassibile del tempo (la morte), e per questo il tempo diventa la storia il cui protagonista è l’io di ogni essere umano. Il tempo diventa storia del mondo perché è la storia cosciente di ciascuno di noi. Ed è qui che per il cristianesimo si gioca, drammaticamente, il destino storico di ogni epoca.

 

Il cristianesimo ha così ripensato il tempo come storia. Ma si può dire lo stesso anche della sua azione sullo spazio e nello spazio? È vero, come spesso ripete Papa Francesco, che nella concezione cristiana del mondo vi è una superiorità del tempo sullo spazio (Evangelii gaudium, 222-225), perché partire dal secondo significherebbe mirare a conquistare e occupare luoghi di potere, cioè delimitare un possesso, mentre partire dal primo significa aprire di continuo dei processi, cioè mirare al riaccadere della novità. Ma l’ultimo, breve e intensissimo libro di Eugenio Mazzarella (Europa, cristianesimo, geopolitica. Il ruolo geopolitico dello spazio” cristiano, (Milano-Udine, Mimesis, 2022, pagine 108, euro 9) riapre la questione, provando a flettere la priorità del tempo in una concezione originale dello spazio, o meglio degli spazi cristiani. A partire da una connessione che già aveva inquietato alcuni spiriti storici di rilievo tra il XVII e il xix secolo, quella cioè tra cristianità ed Europa. Sappiamo bene come negli ultimi decenni sia divenuta sempre più problematica (e politicamente scorretta) l’identificazione dello spazio europeo con la storia cristiana. Ma non si tratta solo di integrare l’Europa cristiana con le sue fonti classiche e i suoi esiti illuministi, ma di capire, analogamente a quello che è accaduto con il fattore-tempo, cosa è accaduto con il fattore-spazio, o più esplicitamente, come dice Mazzarella, chiedersi qual è «il ruolo geopolitico dello “spazio” cristiano».

 

Questo ideale di Europa non coincide con una determinata epoca storica (il Medioevo di Novalis), ma si presenta a noi, e ci interpella ancora, come «fondativa esperienza storico-spirituale», e politicamente come «la più grande piattaforma di diritti (naturali, umani, di cittadinanza) che la storia della civilizzazione umana abbia conosciuto e conosca».

 

Uno spazio di libertà che paradossalmente ha reso possibili anche «i percorsi laici della sua scristianizzazione» fino alla sottomissione al Mercato come nuovo vitello d’ora dell’homo consumens.

 

Ma ciò che più colpisce in questa ricostruzione è il fatto che Mazzarella (anche seguendo una traiettoria significativa che va da Guardini a Ratzinger a Carrón) individui come problema storico (e politico) centrale del nostro tempo la presa d’atto del fallimento di una cultura che, nata dall’esperienza cristiana, ha poi proceduto all’universalizzazione astratta del vissuto in valori morali, non presenti nella vita ma staccati da essa e ridotti a traguardi tanto ideali quanto irraggiungibili di un’etica del dovere. Non è dunque l’appello ai valori morali a costituire la traccia “cristiana” dell’Europa (come modello e canone per il mondo intero), anzi, sono proprio questi valori che hanno trasformato il cristianesimo in quello che Nietzsche chiamava «il sepolcro di Dio». Bisogna piuttosto capire che cosa, meglio che tipo di esperienza ha originato questa civilizzazione, e che tipo di perdita ha poi causato, sta causando la sua crisi endemica. Bisogna cioè tornare al vissuto che ha formato i valori, senza cedere all’illusione che siano i valori a generare la vita.

 

Il problema più infuocato, per Mazzarella (e come dargli torto?) è quello di tornare a “sentire” la vita, i diritti e i doveri, i fini e gli stessi valori. Si tratta di raggiungere quello «strato ontologico fondativo del sentire», in quella percezione di sé, degli altri e del mondo, in cui comincia il lavoro della coscienza e l’affermazione dell’irriducibilità dell’io: «Una dignità dell’uomo che non è nella disponibilità di nessun potere umano (che la può solo riconoscere) ma solo dell’amore, della fondativa solidarietà universale del fatto umano garantito nella paternità incarnata di Dio». L’io “cristiano-europeo” (ormai non si tratta più di un’etichetta ma di una tendenza della vita e di una connotazione antropologica per tutti) è un io irriducibile perché è «il Tu divino che, prima ancora che io dell’autoaffermazione, mi fa me delle relazioni; che fa quel che davvero sono, vita “affidata” e che si fida, che nasce in cure fondative, quelle parentali della relazione filiale e fraterna, e ne assume il primato ontologico, etico, sociale».

 

Questa postura antropologica resa possibile dall’origine che attinge all’origine dell’esperienza cristiana, appare certo come qualcosa di inedito, di scandaloso sullo scacchiere della geo-politica odierna, tanto si è persa la traccia dell’essere-relazione proprio dell’esserci umano nel livellamento economico, culturale e politico della globalizzazione planetaria. E ciò che sembrerebbe contrapporsi a questo livellamento riguarda in realtà fenomeni ancora più inquietanti, come la ricerca nazionalistica dell’egemonia mondiale secondo blocchi contrapposti (la guerra in corso lo fa vedere drammaticamente). In questo caso l’alternativa è figlia del suo contrario e comunque perpetua l’insignificanza della dimensione sociale e dell’istanza politica dell’esperienza umana. Il richiamo di Mazzarella a un diverso sentire antropologico rinnova invece la potenza di una visione – ma direi meglio di una coscienza – che può ancora attraversare lo spazio del conflitto del nostro mondo. Come la testimonianza che è possibile pensare ancora, e costruire un governo multilaterale, nel mutuo rispetto delle potenze “mondane”, alla luce di quella potenza irriducibile al mondo, ma che fa andare avanti il mondo, che è la presenza e il destino di bene di ogni essere umano.

 

 

Fonte: L’Osservatore Romano, 22 giugno 2022