Recentemente ospite di TgCom24, il noto farmacologo, fondatore e già Direttore dell’Istituto Mario Negri, prof. Silvio Garattini ha fatto il punto sul settore sanitario e medicale, evidenziando la necessità di una vera e propria “rivoluzione culturale” nelle abitudini degli italiani, troppo spesso inclini ad applicare il nesso malattia-farmaco negli stili di vita più radicati e diffusi. Poche persone in Italia possono vantare un know how di così lunga esperienza e di competenza come il prof. Garattini. Per altro, il suo osservatorio è decisamente supportato da dati e analisi tecniche sempre aggiornate e approfondite che rendono conto in modo oggettivo e documentato dei comportamenti sociali prevalenti. “La medicina ha fatto grandi progressi ma è anche diventata un grande mercato. Molte malattie sono assolutamente evitabili, ci sono 3 milioni e 700 mila diabetici adulti e questa è una malattia evitabile, così come il 40% dei tumori lo è”, ha affermato Garattini, mettendo il dito sulla piaga della carenza di prevenzione mediante accertamenti strumentali ed evidenziando – di converso – come l’abuso farmacologico in itinere o a posteriori rispetto al corso di una malattia non sempre costituisce la soluzione più efficace in quanto c’è uno scostamento tra loro implementazione ed esiti risolutivi. La prevenzione è l’approccio più sensato ed efficace ed esso ingloba la scelta di stili di vita sani, centrati ad esempio sull’alimentazione e l’attività fisica.
Normalmente il paziente tende ad aumentare il consumo dei farmaci, immaginando un nesso quantità-soluzione: non sempre – o quasi mai – è così. “Ogni anno muoiono 180mila persone in Italia. C’è bisogno di una grande rivoluzione culturale che metta al centro la prevenzione e che richiede una volontà anche di tipo politico, in questo modo il servizio sanitario nazionale non spenderebbe più 3 miliardi e mezzo di farmaci all’anno, ma molti di meno che potrebbero servire a migliorare altre cose molto urgenti come le lunghe attese per le prestazioni e i servizi”.
Esiste anche, secondo il farmacologo-oncologo, un eccesso di prescrizioni di farmaci: “Molti anziani usano anche 15 farmaci contemporaneamente ma nessuno ha mai stabilito se 15 siano davvero meglio di 10. Quello che sappiamo è che ci sono molte interazioni tra i farmaci e alla fine possono esserci tanti effetti collaterali. Ancora più grave è la condizione delle donne che sono ‘condannate’ a usare farmaci che vengono testati su maschi adulti. I primi studi clinici vengono svolti solo sugli uomini nelle prime due fasi. Solo nella terza vengono inserite le donne ma non è sufficiente a stabilire se un farmaco sia più attivo su un uomo o una donna. Dovrebbero esserci due distinti protocolli perché sia i sintomi sia la frequenza che gli esiti della stessa malattia sono diversi tra uomo e donna ma questo ha costi maggiori. Condanniamo metà del mondo a non avere i farmaci adeguati e le donne, come sappiamo, sono più soggette a effetti collaterali”. Sono affermazioni impegnative che dovrebbero far riflettere i medici prescrittori dei farmaci e i loro pazienti, voraci consumatori di medicine all’insorgere di un primo sintomo. L’eccessiva medicalizzazione può determinare risultati opposti alle aspettative. Sono convinto che se l’Istat sul piano demografico, il Censis su quello delle derive sociali e l’Agenzia italiana del farmaco o lo stesso Istituto Superiore di Sanità, su quello strettamente medicale, avviassero una indagine che prevedesse il costante monitoraggio sull’uso e sull’abuso dei farmaci, avremmo risultati sorprendenti ma non positivi.
In tasca, nella ventiquattrore, in borsetta, nello zaino, in cartella quasi ognuno di noi porta con sé una quantità variabile e tendenzialmente implementabile di medicine, da quelle ad “effetto placebo”, ai generici farmaci antidolorifici, a pastiglie, gocce, pasticche ecc. come una sorta di scudo utile e rassicurante all’insorgere di un malessere. Altri non escono di casa se non hanno deglutito una manciata di pillole. Ci sono poi le vere e proprie degenerazioni: si pensi alla diffusione massiva e all’incremento verticale dell’uso degli psicofarmaci: ansiolitici, calmanti, antidepressivi, integratori che si ingurgitano a casa, per strada, al lavoro contando su un effetto sintomatico e stabilizzatore dell’umore e di controllo delle emozioni.
Purtroppo la frontiera più nefasta e dannosa, che sta diventando una deriva inarrestabile specie tra i giovani, è l’uso di pasticche ad effetto allucinogeno, con varianti sul tema: come sostitutivi delle droghe tradizionali, come micce che accendono lo sballo fino alle date rape drugs, chimica al 100%, la cosiddetta “droga dello stupro”, veri inibitori della volontà. Inghiottire una di queste sostanze dagli effetti incontrollabili e distruttivi della mente e delle facoltà del controllo di sé è questione di un attimo e purtroppo il mercimonio che se ne fa con prezzi concorrenziali lo rende accessibile anche ai giovani in tenera età. Ma qui il discorso si fa più ampio ed ingloba i comportamenti malavitosi e delinquenziali come fenomeni prodromici o collaterali alla diffusione e al commercio delle droghe e alle devianze vere e proprie.
Soffermandoci a considerare il consumo esponenzialmente crescente dei farmaci possiamo attribuirne le cause ai mutati ritmi sempre più intensi e stressanti della vita quotidiana: il nesso causa-effetto-cura che ne deriva non dovrebbe esser lasciato alla discrezionalità del consumatore ma essere sempre guidato ed autorizzato (anche in tema di posologia) dal servizio sanitario, in particolare dal medico di base con cui abbiamo un contatto più frequente di quello ospedaliero o specialistico. Insomma questa deriva del “tanto più, tanto meglio” che applichiamo alla cura di noi stessi produce danni e non sempre cura il male. Il consumo di psicofarmaci aumenta dal 2017 ad oggi con un trend superiore al 2% annuo. Secondo il Rapporto Osmed di Aifa il consumo si assesta sul 44.6% di dosi giornaliere ogni mille abitanti rispetto al 39% del 2014. Né ci può consolare che questo incremento interessi quasi tutta Europa: in 18 Paesi si è passati dalle 30,5 dosi giornaliere/1000 del 2000 alle 75,3/1000 del 2020. Il fenomeno è globale, direi pervasivo nei Paesi ad alto tasso di industrializzazione, che esprimono tutti i mali della globalizzazione, le caratteristiche della società dei consumi (annesse le loro crisi economico finanziarie), e tutto il coté negativo delle frizioni legate alla sostenibilità ambientale e climatica, ai ritmi di vita logoranti e iperconnessi.
Insomma, viviamo una stagione in cui siamo vincolati al consumo esponenziale di medicamenti chimici che assimiliamo per autoregolamentarci e nello stesso tempo siamo sovraesposti ai condizionamenti e agli algoritmi della tecnologica che esprime un’azione spesso logorante e costrittiva nella massiva digitalizzazione che sta radicalmente cambiando il nostro modo di vivere.
Credo che i due fenomeni – uno interno e l’altro esterno – vadano studiati insieme per affrontare cambiamenti che spesso non siamo in grado di governare da soli.
Per semplificare e concludere, il cervello all’ammasso lo possiamo portare con le droghe sintetiche o imbottendoci di mix micidiali di pastiglie oppure con l’affidamento totale alle dinamiche mostruose e devastanti dei social che portano all’imbarbarimento collettivo: in mezzo ci sta l’uomo e non dobbiamo permettere che rimanga stritolato in questa delirante alienazione della propria identità.