Come milioni di italiani, sono rimasto di nuovo affascinato dal Sandokan televisivo di Rai1, come da bambino.
Uno dei motivi della seduzione della vicenda del “figlio della tigre” risiede, a parer mio, nella compresenza di ingredienti della fiaba e di ingredienti della geostoria. Da un lato, come per ogni fiaba che si rispetti, si tratta – come direbbe Propp – di un grande rito di iniziazione, sia per il re dei pirati sia per Marianna: una prova con mille insidie e difficoltà, fino al lieto fine.
Dall’altro, vi è un’articolazione geostorica degli eventi che supera abbondantemente gli schemi favolistici, assai semplici: il Console inglese, il Sultano, Londra e l’Italia sullo sfondo, i pirati, vicini alle tribù indigene ma da esse distinti. E poi vi è un legame sentimentale – quello, appunto, tra la figlia del Console, vera e propria eroina, e l’eroe – che oltrepassa di gran lunga lo schema fiabesco principessa–principe azzurro. Vi sono pathos, tensione reciproca, tormento, misteriosa alchimia d’amore, intesa fisica ed emotiva.
E, come molti hanno osservato, iconica è l’ultima scena: un grande uomo e una grande donna al timone di una nave, protesi verso un’isola mitica, verso l’utopia. Sospesi tra il sogno e l’orizzonte, tra il desiderio di giustizia sociale e la felicità di coppia.

