Nel nostro tempo è ormai diffusa la necessità di polarizzare su posizioni contrapposte ogni opinione: per catturare l’attenzione di una platea sempre più inebetita dalla circolazione massiccia di informazioni parziali e contraddittorie, non si è più in grado di articolare un pensiero che non sia vittima della semplificazione del “bianco o nero”, della contrapposizione sterile da tifoseria.
Ciò purtroppo esplode quando l’opinione pubblica si trova, come avvenuto recentemente in Liguria, di fronte a inchieste giudiziarie che toccano la classe politica.
Mi astengo da qualunque valutazione in merito al rilievo penale delle questioni, perché non dispongo delle competenze necessarie in questo campo e per il massimo rispetto nei confronti dell’operato della Magistratura.
Assunto ciò, da cittadino che credeva nella politica al punto da essersi schierato pubblicamente a vent’anni e che, malgrado tutto, continua a credere nelle Istituzioni, non posso non stigmatizzare l’ennesima occasione per alimentare la contrapposizione strumentale tra due fazioni, quella dei cosiddetti giustizialisti, e quella dei garantisti a tutti i costi, o sovente, a senso unico.
Rifiuto pertanto questa ennesima banalizzazione e tento di portare all’attenzione dei miei “quattro lettori” e forse anche elettori, alcune considerazioni più articolate.
Questa esperienza vissuta in politica attiva, dall’altra parte della barricata, è servita a farmi superare una volta per tutte una forma di assenso acritico, di cui anche io ero schiavo, che mi portava a condizionare le opinioni in funzione dell’appartenenza; ebbene, tutto questo, da tempo, non accade più. Da ciò è scaturito il mio approccio da “spirito libero”
‘, che mi è costato l’iscrizione nella lista di proscrizione da parte chi
mal tollera ogni forma di confutazione o dissenso, anche costruttivo.
Fatta questa premessa, penso che il cittadino, invece che continuare ad assecondare il “gioco dei potenti” schierandosi in fazioni come Guelfi e Ghibellini, dovrebbe indignarsi per la totale mancanza di attenzione nei confronti delle proprie istanze ed esigenze da parte di chi amministra la “cosa pubblica”; invece erroneamente cade nell’inganno della narrazione.
Ho detto narrazione, proprio così, perché oggi il consenso si governa attraverso le suggestioni che si vogliono stimolare negli elettori, spesso corroborate da argomentazioni accattivanti, benché banali.
A tal proposito mi sorge spontanea una domanda: il cittadino, invece che sprecare energie per scegliere la tifoseria a cui appartenere, si sta chiedendo se ciò che viene narrato corrisponda a verità?
Il primo tradimento di cui l’elettore è vittima è proprio questo!
Inoltre: chi, entrando nell’ingranaggio del potere, rileva la menzogna che sta dietro alla narrazione, davvero ha gli strumenti per intervenire? Molto spesso no, perché gli spazi in cui argomentare vengono scientemente ridotti ai minimi termini anche nei circuiti istituzionali, ma soprattutto perché chi sta dall’altra parte, ovvero l’elettore, non gli crederebbe; è infatti molto più comodo rifugiarsi in un’illusione fallace piuttosto che affrontare la realtà.
L’etica pubblica vorrebbe che ogni iniziativa intrapresa da un pubblico amministratore fosse esclusivamente nell’interesse della collettività;
oggi invece la leva del potere è strumento di autopromozione, un palcoscenico da sfruttare per progredire e trarne dei vantaggi, in una dimensione da campagna elettorale permanente.
In questo quadro la competenza diventa una minaccia e non più un requisito da valorizzare nell’interesse di tutti: ciò genera un criterio di selezione antimeritocratico, basato sulla disponibilità all’assenso acritico e all’obbedienza passiva, invece che sulla qualità delle persone; da qui l’assenza di classe dirigente, letteralmente soppiantata da pletore di personaggi ossequiosi e mediocri, disposti a difendere l’indifendibile in cambio di qualche favore o promozione.
Pertanto, al di là di ogni dinamica giudiziaria rispetto a cui, come già detto, non intendo esprimermi, ciò che emerge dalla politica odierna è la gestione padronale delle Istituzioni.
Il destino della democrazia rappresentativa è esclusivamente nelle mani dei cittadini-elettori: a loro mi rivolgo auspicando che non si facciano ammaliare da narrazioni semplicistiche, che non subiscano il fascino di chi urla di più, di chi “la spara più grossa” ma si affidino a quei politici seri – fortunatamente numerosi, anche se marginalizzati – che con onestà intellettuale non si attribuiscono falsi meriti né generano ipertrofiche aspettative, ma svolgono con sobrietà le loro mansioni e coniugano l’interesse pubblico con la propria legittima ambizione, trovando un punto di equilibrio.
In caso contrario si alimenterà un sistema oligarchico arrogante, il cittadino continuerà ad essere inconsapevolmente schiavo di un apparato che, dai cortigiani al capo, cerca l’acclamazione plebiscitaria attraverso la somministrazione quotidiana di slogan e luoghi comuni; contemporaneamente, la società verrà progressivamente svuotata di valore e privata perfino dei servizi essenziali come le prestazioni sanitarie. In questo desolante quadro, il partito dell’astensione, rifugio inefficace di chi consapevolmente si è arreso, continuerà a prevalere, in termini numerici, su chi ancora nelle urne si esprime.
Stefano Costa
Consigliere comunale di Genova