Sei questioni per il quarto referendum in 20 anni

Il taglio di parlamentari, previsto nella proposta di riforma, non allarga né i diritti e né le libertà dei cittadini

Quello del 20 settembre 2020, l’anno della pandemia e del centocinquantesimo anniversario della Breccia di Porta Pia, è il quarto referendum che, in venti anni (2001-2006-2016-2020), chiama i cittadini a votare per modificare la giovane Costituzione della altrettanto giovane Repubblica italiana. Poco più di 70 anni fa c’era ancora la Monarchia e vigeva lo Statuto Albertino.

È notorio che anche la semplice modifica di una virgola ad una legge potrebbe comportare conseguenze di varia natura. Cambiare la Costituzione, che è la Legge delle leggi scritta in particolari momenti della Storia di una Nazione, è una cosa seria. I cittadini, in occasione del referendum, non dovrebbero lavarsene le mani come Ponzio Pilato. E non dovrebbero decidere sbrigativamente assecondando le proprie o le altrui passioni, emozioni, simpatie e antipatie del momento. 

In proposito, viene subito in mente il metodo suggerito da Luigi Einaudi: “conoscere, discutere e deliberare”. La citazione appare opportuna anche perché Einaudi è stato uno dei Padri Costituenti, è stato eletto a svolgere il compito di Presidente della Repubblica ed è stato definito “esemplare custode” della Costituzione. Ecco perché, anche alla luce delle esperienze e dei risultati caratterizzanti i 3 referendum che hanno preceduto quello del 20 settembre, prima di votare bisognerebbe tenere presente:

1) l’esistenza, nel contenuto della proposta di riforma costituzionale, di un ampliamento o di un restringimento dei diritti e delle libertà del singolo cittadino chiamato a votare “sì” o “no”;

2) i motivi e le finalità visibili e sottostanti che abbiano indotto l’attuale Parlamento a formulare le proposte di modifiche costituzionali;

3) quali e quanti siano gli interessi a modificare la Costituzione da parte dei governanti di turno che, per come ci ha insegnato Calamandrei, dovrebbero essere impegnati a governare rimanendo lontani dai processi di formazione della volontà del Parlamento in materia costituzionale;

4) le conseguenze delle modifiche relativamente alla possibilità che la riforma oggetto di referendum possa essere destinata (o preordinata) a dare la stura ad altre successive modifiche costituzionali con esiti del tutto incerti al momento in cui il cittadino viene chiamato a rispondere con un semplice “sì” o con un semplice “no”;

5) il filo rosso (o multicolore) del “potere” che congiunge i 4 referendum, “potere” inteso come “concentrazione del potere” in contrasto col diritto del cittadino alla “partecipazione”;

6) l’esistenza della libertà di coscienza, ai sensi dell’art. 67 della Costituzione, nella determinazione della volontà dei singoli parlamentari che hanno posto in essere le modifiche costituzionali atteso che in Italia, specialmente dal porcellum in poi, molti parlamentari non sono stati scelti dai cittadini, ma dai loro capi partito e atteso che in Italia non è stato attuato l’art. 49 della Costituzione che prevede il “metodo democratico” nella formazione della volontà dei partiti.

In piena libertà di coscienza, come cittadino teso a rispettare entrambe le opinioni, quella a favore e quella contraria alle modifiche, ho provato a dare le risposte alle sei questioni che ho appena accennato. Mi rendo conto che ho posto alcune “domande retoriche” perché le relative risposte, se non completamente evidenti nella stessa domanda, mettono a nudo una vicenda da considerare in un contesto rivolto a cambiare, pezzo per pezzo, i connotati dell’architettura costituzionale disegnata dai Padri Costituenti. Pertanto posso omettere di dilungarmi punto per punto sulle singole questioni e mi limiterò di sintetizzare gli aspetti più significativi della vicenda referendaria.

Il taglio di parlamentari, previsto nella proposta di riforma, non allarga né i diritti e né le libertà dei cittadini, come ha ben spiegato Massimo Villone, Presidente del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale e del Comitato del “no”. Villone parla di un “danno” alla rappresentatività dei cittadini nel Parlamento. “In Senato, con la riforma, solo due o tre forze politiche riuscirebbero ad avere propri eletti, lasciando senza voce percentuali molto significative del corpo elettorale. Tra l’altro diversificando la composizione tra Camera e Senato, perché alcune forze politiche riuscirebbero ad avere deputati, ma non senatori.” C’è da aggiungere che la riduzione del numero dei parlamentari pone il rapporto elettori-eletto molto lontano dai numeri indicati dai Padri Costituenti. Domenico Gallo, dell’Esecutivo dello stesso Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, ha spiegato con scrupolosa puntualità la questione dei numeri in riferimento al rapporto eletto-elettori ed ha concluso il suo studio affermando che Attualmente il rapporto fra abitanti e Parlamentari è di un seggio di deputato ogni 96.000 abitanti ed un seggio di Senatore ogni 192.000 abitanti. Con la riforma avremo un Deputato ogni 151.000 abitanti ed un Senatore ogni 303.000 abitanti. Se si fa il raffronto fra il numero dei deputati e la popolazione negli Stati membri dell’Unione Europea, l’Italia, con un rapporto di 0,7 ogni centomila abitanti finisce all’ultimo posto, superando la Spagna, che prevede un seggio ogni 133.000 abitanti (0,8).” Gallo, numeri alla mano, ha anche messo in evidenza il fatto che il voto dei cittadini non sarebbe di eguale peso nelle differenti regioni. Per esempio c’è la Calabria che, con popolazione doppia di quella del Trentino avrebbe lo stesso numero di parlamentari. Peraltro la riduzione crea una vera sproporzione tra peso politico del Parlamento, con numeri ridotti, e rappresentanti delle regioni in occasione della elezione del Presidente della Repubblica. La riforma favorirebbe l’allargamento e la “concentrazione” di potere in capo alle Regioni, che non sono il massimo della credibilità politico-istituzionale specialmente dopo la “errata” e improvvida riforma del Titolo V del 2001. Fu, quella riforma, oggetto del primo dei 4 referendum dell’ultimo ventennio. Prevalse il “sì” e molti cittadini, me compreso, siamo pentiti di quel “sì” ad una riforma che ha favorito le rivendicazioni di “accentramento” di poteri a livello delle Regioni. Le recenti vicende concernenti le rivendicazioni di più potere da parte delle Regioni attraverso la così detta “autonomia regionale differenziata”, corrispondono sostanzialmente agli obiettivi della “secessione” compresa nel progetto politico di un partito nato e nutrito con lo scopo di frantumare l’unità d’Italia realizzata 150 anni fa. L’unità dell’Italia è molto recente rispetto alle grandi nazioni europee.

Mi preme sottolineare che c’è un filo non rosso, ma multicolore che collega la “tendenza” ad affievolire (se non indebolire) il potere di tutte le assemblee elettive (Parlamento, Consiglio Regionale, Consiglio Comunale) titolari del potere-funzione di indirizzo e di controllo nei confronti del Governo, del Governatore e del Sindaco. Questa “tendenza” risulta chiara e dichiarata da molti “riformatori” che pretendono di realizzare un’architettura costituzionale sotto la guida del “Sindaco d’Italia”. Si tenga presente, al riguardo, che ai Sindaci dei nostri tempi sono stati conferiti più poteri di quanto non ne avessero i Podestà di epoca fascista. Il filo rosso (o multicolore) che congiunge i 4 referendum dell’ultimo ventennio, non ha mai avuto il connotato dell’allargamento dei diritti e delle libertà dei cittadini. Ha una caratteristica precisa che si può definire con una locuzione: “rivendicazione della concentrazione del potere”. È stata la rivendicazione della concentrazione del potere in capo alle Regioni la errata riforma del Titolo V (anno 2001). La medesima “rivendicazione” di una specie di “premierato assoluto” (più potere al Governo) è stato il tentativo di riforma del 2006 ad opera del Governo Berlusconi. Similmente il Governo Renzi ha provato, tra l’altro, a sopprimere il Senato per sostituirlo con un Senato eletto dai consiglieri regionali e non direttamente dai cittadini. Per ragioni di sintesi non mi dilungo sui tentativi di riforma dei Governi Berlusconi e Renzi che gli italiani hanno respinto con un “no” chiaro e forte. 

Osservo, infine, che le attuali proposte di modifiche costituzionali sono state oggetto di un accordo di governo. Addirittura con un accordo che ha costretto (o indotto) a votare sì alla riforma alcune forze politiche che, prima di entrare nell’attuale governo, avevano votato più volte no alla medesima riforma. La questione è gravissima perché si “allinea” ad una prassi contraria a diversi principi e a diverse caratteristiche della Costituzione, che è una Costituzione rigida, quindi non flessibile e non oggetto di cambiamenti con l’avvicendamento dei governi. Oltre agli insegnamenti di Calamandrei, ci sono da ricordare le parole scritte in molte lingue, anche in lingua italiana, sulle vetrate dell’edificio dove è custodita la famosa e secolare Campana di Philadelphia che spiega come: “Un governo giusto si basa su una Costituzione scritta e non dipende dai capricci dei singoli governanti”. Queste parole scritte nel luogo dove è nata la prima democrazia moderna e dove è stata concepita la Costituzione con quasi tre secoli di vita, dovrebbero fare arrossire di vergogna i governanti italiani che, da un ventennio, sottraggono al tempo del loro compito governativo tantissimo tempo in attività finalizzate al cambiamento della Costituzione. Da quanto affermato da alcuni sostenitori del “sì”, sembra emergere l’idea secondo cui ogni riforma dovrebbe essere valutata per quello che è e che appare al momento del voto referendario, senza eccessivi timori per le modifiche ulteriori che fossero necessarie a dare senso compiuto alla riforma oggetto del quesito referendario. Sta di fatto che gli stessi sostenitori del “sì”, che sono forze di governo, preannunciano altre riforme costituzionali. Con ciò confermano di avere l’intenzione di aprire un infinito processo di cambiamenti il cui esito è del tutto incerto al momento in cui il cittadino si vede costretto a decidere con un semplice “sì” o con un semplice “no”. Infatti, se l’attuale maggioranza governativa dovesse cadere, le preannunciate ulteriori modifiche finirebbero per avere caratteristiche imprevedibili. Al riguardo, mi pare doveroso citare la recente opinione espressa da un attento e raffinato analista politico, Rino Formica, secondo cui Se passa il sì passa l’avventura di modifiche costituzionali al vento di tutte le possibili maggioranze politiche. Chi ha la maggioranza politica cambia le leggi elettorali e la Costituzione a suo uso e consumo”. Concludo queste mie riflessioni ricordando la lunga notte della democrazia causata da leggi elettorali riconosciute incostituzionali dalla Corte Costituzionale. Le sentenze della Corte sono intervenute grazie ai ricorsi presentati, in via giurisdizionale, da semplici cittadini impegnati a contrastare le ineffabili scelte di decisori politici che, in spregio all’etica della responsabilità, continuano ad imperversare sulla scena politica italiana.

Per i motivi sinteticamente esposti, considerato il mio errore del “sì” alla “errata” riforma del Titolo V del 2001 e tenuto presente il mio coerente “NO” ad entrambi i tentativi di riforma costituzionale dei Governi Berlusconi e Renzi, rispettivamente nel 2006 e nel 2016, ritengo giusto votare “NO” al referendum del 20 settembre 2020.