“Quel figlio di puttana ha appena perso le elezioni”, disse infuriato Henry Cabot Lodge jr. – compagno di Nixon nella campagna elettorale per le presidenziali USA del Novembre 1960 – dopo aver assistito al confronto in TV fra il candidato democratico John F. Kennedy e quello repubblicano Richard Nixon.

La TV decretò così la caratteristica numero uno di ogni comunicazione politica, l’im-mediatezza. Le cose valgono per come sembrano (sembrano subito) e non per quello che contengono. (C’è un libretto insuperabile su questo: “NON HO NIENTE DA DIRE, MA SO COME DIRLO – Trattato ad uso del moderno opinionista”, di Claudio Nutrito, Edizioni Stampa Alternativa, 2010.)

In realtà quella sera negli studi della CBS a Chicago il candidato democratico di cose da dire ne aveva, soprattutto poteva riversare davanti ai milioni di americani incollati alla TV un consistente lavoro tematico preparatogli dal suo staff (un livello che Nixon non aveva, confidando più sulla sua carica di Vice Presidente con Eisenhower e sulla collezione d’esperienze che poteva presentare). Ma soprattutto Kennedy all’immediatezza delle immagini – l’apparenza – aggiunse una rivoluzione nelle cornici e nei loro contenuti – la sostanza -.

Caricò l’immagine e sparò nel futuro dell’America. Non nel mantenimento e nemmeno aggiustamento dell’esistente (e che esistente: due guerre mondiali vinte, potenza nucleare, prima economia del mondo ecc. ecc.).

I primi scricchiolii del rapporto istituzioni-cittadini cominciavano ad avvertirsi. La stessa idea di ‘benessere’ andava reimmaginata e presentata, certamente al lordo di tutti i rischi del caso, in un nuovo patto tra elettori e governance (“Ask not what your country can do for you – ask what you can do for your country”, 20 Gennaio 1961).

Ma al di là del contesto del dibattito, come l’età moderna inizia con il 1492 quando termina il medioevo, la comunicazione politica contemporanea (i nostri talk shaw, forum, etc.), se non addirittura la stessa politica contemporanea nei suoi stessi contenuti come la avvertiamo oggi, inizia 60 anni fa, in quel 26 Settembre alla CBS.
Qualcuno ricorderà il successo di uno come Giorgio Almirante davanti alle telecamere di Tribuna Politica del Programma Nazionale della RAI (non a caso ‘tribuna’; e non a caso inizia nel 1961), il volto rassicurante di un vecchio zio saggio, dal linguaggio pacato, che tanti voti portava al MSI.

Vestito di grigio topo come lo sfondo dello studio, sudaticcio (in realtà era l’effetto lucido per il calore delle lampade dello studio; e Kennedy? aveva il make-up), rasato “come un operaio della Ford il lunedì mattina” (Cronkite), vantando le proprie esperienze come tratte da un cv personale, enumerando le cose da fare “come fosse in un supermercato e non in una campagna elettorale” (Cabot Lodge), Nixon andò subito in affanno davanti alla chioma fluente, all’abbronzatura ed all’abito scuro formale di Kennedy, che ne faceva risaltare continuamente il viso.

Ma l’asso che Kennedy calò per il suo programma presidenziale – e ciò corrispondeva all’immagine – fu sul Cambio di Paradigma; non è che avesse cose molto diverse dalla ‘lista’ di Nixon, è che le inserì in una cornice rivoluzionata, che agli americani apparve come una scommessa: non dobbiamo vincere le guerre mondiali, dobbiamo sfidare e vincere il Futuro. Nixon infarcì la serata di esperienze (pubblico navigato = rassicurazioni); Kennedy, che non ne aveva, invitò a tirar fuori i desideri (pubblico giovane [ed allora era tanto] = mobilitazione).

“Just say that the question is of experience and the question also is uh – what OUR JUDGMENT IS OF THE FUTURE and what our goals are for the United States, and what ability we have to implement those goals”.

La questione non è l’esperienza, la questione è l’idea che abbiamo noi del futuro.
E quindi quali traguardi vogliamo raggiungere, e quindi ancora quali competenze ci servono.

Il Futuro fu il senso di quel cambio di paradigma. La TV (la tecnologia) lo portò nelle case.