I toni miti non sembrano appartenere alle consuetudini comunicative del nostro tempo.
Difficile trovare consensi parlando sottovoce: le ragioni si conquistano con modi sovrastanti, vince l’effetto domino, non ci si può sottrarre alla gratificante soddisfazione dell’essere i depositari dell’ultima battuta.
Si parla, ci si scambiano idee e opinioni, si partecipa più o meno convintamene a questo straordinario palcoscenico planetario della recita a soggetto, dove ormai nessun contatto ci è precluso.
Si pensa, si parla, si dice: ma si sa anche ascoltare?
C’è una selezione naturale nelle scelte di quello che si ascolta, operata dalla nostra mente, dai nostri interessi e dalla nostra attenzione ma non sempre ci riesce di escludere quello che vorremmo restasse fuori.
Viviamo infatti nel magma indistinto della comunicazione al punto che ci riesce difficile separare la realtà dalla sua rappresentazione.
In una società definita complessa, senza centro e senza periferie, finisce per essere vero il tutto ma anche il suo contrario, prevalgono sempre i punti di vista, la soggettività.
Siamo solisti che ambiscono di appartenere al coro ma abbiamo la velleità di pensare che il consenso è meglio acquisirlo partendo dalle nostre personali valutazioni.
Il vociare indistinto che ci circonda finisce col diventare un limbo di soggettività.
La complessità consiste infatti nella multicorde compresenza delle voci dove poco resta sottotraccia: tutti devono dire, esprimersi, aggiungere, puntualizzare.
Si alzano i toni senza preoccuparsi di elevare pure le altezze: quelle dei contenuti, dell’etica che li ispira e dei messaggi, del rispetto verso gli interlocutori.
Più che sussurrare ormai si vocifera convintamene, per abitudine o per scelta non ci si può escludere da questo presenzialismo della parola.
C’è una sorta di brusio diffuso che abbraccia l’umanità e la pervade ma non sempre si riesce a decifrarne il senso: vociferare infatti significa esprimersi comunque, senza riguardo ad un principio di identità, è sempre più importante partecipare.
Più del messaggio in sé diventa significativa la presenza: esserci, dire.
A partire dai “si dice” tutto diventa ipotetico e possibile, non c’è miglior palestra per esercitare la nostra fantasia: fare congetture, diffondere notizie incerte, mormorare, insinuare.
Si parla per dire o si parla per parlare?
C’è un autocompiacimento celebrativo nell’eloquio: ad esempio i politici migliori sono infatti quelli che usano la retorica per mascherare la carenza di senso pratico.
Trovo che oggi ci si pongano meno domande di un tempo, che l’umiltà del dubbio abbia ceduto il posto alla spavalderia, che tutti si affrettino ad accreditarsi come depositari di autorevoli risposte.
Questo mondo ci fa crescere in fretta, troppo in fretta e ci proietta sulla ribalta della vita con il solo paracadute dei luoghi comuni, facendoci credere che la rete della comunicazione possa sostenere l’onere della prova e delle scelte.
Ma questa rete ha maglie troppo larghe e sottili per reggere la trama della vita e a volte, quando si alza il sipario, siamo chiamati a qualche monologo senza partitura.
Trovo che il vociare collettivo produca ingolfamenti nell’anima, un surplus di stimoli che spesso genera azioni uguali e contrarie: ci “resettiamo” solo nel silenzio, se ne siamo capaci.
Si dice, si vocifera: nel bene o – più sovente – nel male finiamo col vivere una condivisione inconsapevole, priva di autenticità.