“Trascorriamo la nostra vita dedicando più tempo a preparare che a fare”: in questo aforisma de “Il riformatore del mondo” di Thomas Bernhard sta una chiave di lettura per capire il dilemma dell’esistenza umana che oscilla tra la ricerca di una soluzione ai mali del mondo, e l’eterna insoddisfazione dei risultati raggiunti. L’uomo finisce per concepire la vita stessa come perenne attesa di una condizione migliore, relegando la quotidianità ad una mera alternanza di abitudini, tra eterno presente da definire e incerto e indefinito futuro da perseguire.

Così è in molti aspetti della realtà e della nostra condizione di viaggiatori che ondeggiano tra bisogno di approdi e pericolo di naufragi, in una vita di affetti e relazioni, assenze e presenze che recano ansie ed effimere certezze. Tra il tempo che scorre implacabile e il nostro bisogno di realizzare la pienezza esistenziale del presente c’è sempre un dettaglio da definire, un impegno da assolvere e un altro da accantonare. Il tempo dell’attesa è il luogo della preparazione e dell’incompiutezza, a volte della sofferenza interiore. Mi disse Reinhold Messner, confrontando il desiderio di scoperta di Ulisse alla paziente tessitura della tela di Penelope: “si guarda all’eroe che parte e non si considera la sofferenza di chi, restando, ne aspetta il ritorno. Le dimensioni umane nascoste sono più interessanti di quelle trionfalistiche”.

Nella nostra vita è così: per una madre che aspetta, un padre che non sa dov’è il figlio, uno che attende il ritorno di chi è partito. Lo notiamo ogni giorno, se distogliamo lo sguardo dal nostro smartphone e incontriamo quello di chi ci sta accanto, di cui spesso cogliamo solo indefinibili apparenze.

Ciascuno di noi è un tenente Drogo che aspetta nella fortezza Bastiani gli attacchi di un pericolo ignoto: dobbiamo difenderci, essere guardinghi. Non è forse la comunicazione autentica il convitato di pietra del nostro tempo? Ricordo le parole di Umberto Galimberti: “Oggi vedo persone che si accostano agli altri come se fossero dei muri. Amore e gratuità sono le due cose che possono dare un minimo di speranza a questa civiltà, ormai assediata solamente dagli interessi, dalla velocità del tempo”.

Pensiamo la globalizzazione come una conquista e ci accorgiamo di quanto finisca col dilatare le nostre insicurezze: nulla è mai definito per vivere il presente, tutto è perfettibile ma labile, vicino ma irraggiungibile. Restiamo impantanati nel luoghi comuni, ci soddisfiamo di apparenze, ci rifugiamo nel  mondo virtuale dove troviamo nicchie di solitudine, altre di complicità, altre ancora di malcelati inganni: eppure, sapendolo, permettiamo ai nostri figli di girovagare in quei meandri reconditi e imperscrutabili, di viaggiare nel buio di un universo nascosto e sconosciuto, fatto di simbologie e linguaggi  spesso indecifrabili, finendo per perdere il contatto basato sulle relazioni primarie: l’affetto, il dialogo, la conoscenza, il tempo “dedicato” alle intimità domestiche che lentamente vanno scomparendo dagli orizzonti della nostra quotidianità, fino a renderci estranei in famiglia.

Degli interessi dei nostri ragazzi conosciamo spesso solo le apparenze imposte da un circuito mediatico che prende il sopravvento sui valori solidi e antichi, tramandati, sulla nostra necessaria autorevolezza, siamo quasi inerti e impotenti di fronte ad un abbaglio effimero e breve che può accecarli rispetto al vero:  molte solitudini trovano conforto nella casualità delle conoscenze in rete ma in quel limbo torbido e fugace circolano figure inquietanti e occasioni per perdersi nel mare magnum degli inganni e delle doppiezze.

Manca al nostro tempo una estesa visione del futuro. Ci si satura nel presente o ci si avventura nell’ignoto fino a perdersi, senza attribuire importanza a ciò che potrebbe rasserenarci.

“Il desiderio di qualcosa che ci manca è una parte indispensabile della felicità” : ce lo insegna Bertrand Russel ma è un invito ad accettare la vita come un dono accontentandosi di ciò che abbiamo e potremmo valorizzare.

Che cosa potrebbe renderci felici? Ricordo l’interpretazione che mi diede Raffaele Morelli quando discutevamo di presente, passato e futuro, di ciò che potrebbe renderci più sereni e appagati: era il tema di un suo libro.

“Scrivendolo mi sono ispirato a Werner, un pittore del ’600: dipingeva gli interni, i gesti qualunque della vita quotidiana, specie quelli domestici delle donne e li inondava di luce. Non ci sono nella vita azioni importanti e azioni secondarie: in ogni cosa la mente si riempie di coscienza. Bisogna imparare a stare nel presente, valorizzarlo, viverlo.

Sono proprio le azioni ‘minime’ quelle importanti, sono le piccole cose che fanno piena la vita”.

Dovremmo forse guardare con più benevolenza alle “piccole cose” intorno a noi, valorizzare ciò che si ha, accontentarsi, coltivare affetti, cogliere l’attimo fuggente? Liberarci dall’ansia anticipatoria, dal collasso dei sentimenti, dal pensiero calcolante, dalle nevrosi del nostro tempo e recuperare una dimensione più serena, gratuita e libera del vivere? E invece aspettiamo Godot (“Già è vero/Cosa?/Che lo dobbiamo aspettare”) perché questo è il senso dell’esistere: vivere è sopravvivere – come spiega Samuel Beckett- attendendo “giorni felici” mentre sprofondiamo nella melma dell’esistere la cui vera tragedia è di aspettare la fine. Giostriamo tra attesa e rinvio, non è facile uscire da una incessante ricerca di stabilità.

Trovo che questa sia una condizione individuale ma anche una categoria sociale: basti riflettere su cosa significhi essere giovani, oggi. La precarietà è la cifra esistenziale della condizione giovanile, tra sconfitte, rinunce, umiliazioni: al lavoro, alla casa, alla famiglia. Una nuova, devastante antropologia che annichilisce e si esaurisce in una mera sopravvivenza senza sbocchi, una condanna alla irrilevanza: realtà che turba le coscienze ma non scuote la politica, relegata alla superficiale gestione dell’ovvio mentre i problemi della vita vera restano insoluti.

La politica ci offre oggi solo un mercimonio di basso profilo, è incapace di proporci soluzioni.

Litigi, distinguo, primazie, divisioni, inganni: circolano torbide figure di demagoghi.

Mancano anche i buoni esempi: come potrebbero essere i nostri figli migliori di noi se siamo pessimi maestri di noi stessi?

Scriveva Seneca: “La vita è lunga se è piena”. Possiamo dire che sia cosi, oggi? Non credo, se ci viene rubata la speranza, se ci viene sottratta la possibilità di realizzare una pur minima, personale felicità.

Oggi tutto si spiega nella narrazione autoreferenziale che nulla risolve e tutto rimanda.

Attesa e rinvio coniugano un passato rimuovibile, un presente ingovernabile, un futuro indecifrabile: è dunque la precarietà la condizione antropologica prevalente del nostro tempo.

Lo è per l’ambiente, per il lavoro, per la famiglia in crisi di resilienza, per chi emigra, per chi parte e per chi resta.

Ancora Seneca: “Dum differtur, vita transcurrit”. Mentre discutiamo su tutto la vita passa e va. Parlare senza fare: questa, sopra ogni altra cosa, rapportata al tempo di vivere che spetta a ciascuno, è la più autoreferenziale e inutile risposta che si possa ricevere.