Un silenzio che dura da troppo tempo
Il silenzio assordante e l’indifferenza generale che più volte abbiamo denunciato su queste colonne di fronte alla tragedia sudanese sono stati finalmente rotti dopo il massacro di Al Fasher, documentato dalle immagini satellitari divulgate sulla rete.
E così tutta la stampa internazionale, e non solo quella – come ad esempio The Guardian di Londra – che meritoriamente segue sin dagli inizi la terribile guerra civile sudanese, ha informato l’opinione pubblica di quanto sta avvenendo in quel disgraziato paese.
Le notizie, peraltro, giungono con difficoltà e risultano spesso incomplete, anche a causa dell’interruzione delle comunicazioni. Non è un caso se sono stati i fumi degli incendi colti dai satelliti a raccontare al mondo quanto stava succedendo a Al Fasher, oggi completamente isolata. Si stimano migliaia di morti, fra i quali centinaia di civili appartenenti a comunità non arabe uccisi all’arma bianca dai miliziani delle Rapid Support Forces (RSF) del generale Hemetti, il quale – secondo la BBC – avrebbe ammesso alcuni “eccessi” compiuti dai suoi uomini. Ipocrisia allo stato puro. Episodi simili si erano già verificati a Geneina, agli inizi della guerra, e nel campo profughi di Zamzam, lo scorso aprile.
Le reazioni internazionali: tra impotenza e ipocrisia
Le istituzioni internazionali fanno quello che possono, ovvero quasi nulla. L’ONU segue con impegno la vicenda sin dai suoi albori ma deve limitarsi a esprimere la propria “profonda preoccupazione”.
L’Unione Europea condanna la “brutalità” delle RSF e auspica una “soluzione pacifica” del conflitto.
Il Papa esorta alla pace, come sempre inascoltato, sorte simile a quella del suo predecessore.
Anche il Parlamento italiano si è attivato, grazie all’iniziativa dell’on. Lia Quartapelle (Pd), promotrice di un’audizione dei rappresentanti della comunità sudanese in Italia con la Commissione Esteri della Camera: un passo utile per informare, sensibilizzare e chiedere al governo un impegno più pressante.
Gli Emirati e la guerra per procura
Tutto ciò è meritevole di apprezzamento, ma occorre molto di più. La contraddizione nella quale affonda la comunità internazionale è emersa proprio alla vigilia dell’eccidio di Al Fasher, quando a Washington l’incontro fra i rappresentanti delle RSF e delle SAF – le Forze Armate Sudanesi – è stato dapprima sabotato e poi fatto saltare.
Primi indiziati del fallimento sono gli Emirati Arabi Uniti, sostenitori – anche se in via ufficiale Abu Dhabi nega ogni collusione – delle RSF, che finanziano e armano con equipaggiamenti ultramoderni pagati in oro e, secondo alcune fonti, anche con mercenari poi impiegati nella guerra dello Yemen.
Ma gli Emirati sono partner strategici per altri scenari, a cominciare da quello israelo-palestinese, oltre che per il loro peso economico e i petrodollari che generano. Ragion per cui nessun paese occidentale osa accusarli apertamente di un sostegno imperdonabile offerto a un esercito di miliziani accecato dall’odio etnico.
Un conflitto senza innocenti
L’impegno emiratino, non ufficiale ma concreto, sembra oggi più efficace di quello egiziano e saudita in favore delle SAF, le quali – va detto – non esitano anch’esse a compiere massacri di civili. Nessuno è innocente in questa sporca guerra, che oltre ai lutti sta causando una carestia su larga scala: venti milioni di persone, quasi la metà della popolazione sudanese, soffrono la fame.
Ora vedremo se l’attenzione internazionale rimarrà desta e, così, riuscirà a costringere le parti in conflitto a sedersi intorno a un tavolo negoziale. Affinché non vi sia, a breve, un’altra Al Fasher.

