14.5 C
Roma
mercoledì, Aprile 16, 2025
Home GiornaleTrump muove contro la Cina, cresce dunque la responsabilità dell’Europa.

Trump muove contro la Cina, cresce dunque la responsabilità dell’Europa.

Che l’attenzione degli USA si fosse trasferita dall’Atlantico al Pacifico era un fatto noto da tempo. Ma che lo fosse sino al punto di mettere in discussione la NATO, non lo immaginava nessuno.

La dichiarazione di guerra daziaria al mondo, celebrata solo otto giorni fa nei giardini della Casa Bianca e pomposamente chiamata “Liberation day” dal suo ideatore è un atto sconsiderato nonché un grave errore economico-finanziario e politico. Lo sappiamo tutti, o quasi. E infatti qualcuno degli amici di Trump deve averglielo detto, durante i giorni nei quali le Borse mondiali sono precipitate.

Ora che il tycoon è parzialmente tornato sui suoi passi, ma nell’incertezza su quali potranno essere i prossimi, resta quanto mai importante cercare di comprendere le ragioni di fondo – se ve ne sono – che hanno condotto il Presidente USA ad assumere una decisione così grave e, come si è visto da subito, deleteria per lo stesso suo Paese. E ciò a prescindere, anche, dal meccanismo (davvero demenziale e oggettivamente sbagliato nei presupposti) che avrebbe definito le differenti percentuali daziarie imposte ai vari paesi del mondo, inclusi quelli più poveri.

Appare evidente che l’obiettivo prioritario della selvaggia mossa trumpiana è la Cina. Il suo ridimensionamento. Confermato infatti dalla scelta di innalzare ulteriormente i dazi nei suoi confronti nel momento stesso in cui sospendeva quelli riservati agli altri paesi. Una sfida che però comporta molti rischi, e che Pechino non pare aver timore di affrontare. Anche perché detiene una massa considerevole di Treasury Bonds, i titoli di Stato USA (qualcosa come mille miliardi di dollari), sui quali può intervenire, ad esempio non rinnovandone una parte, determinando possibili gravi conseguenze sul bilancio americano.

In ogni caso, sono ormai anni che a Washington considerano il Dragone come il loro vero competitor, avversario, nemico. Il termine utilizzato è differente a seconda dei momenti storici, o meglio dire dell’attualità giornaliera, ma di questo si tratta. Il problema, però, è che Trump non è avvezzo al ragionamento sottile, che comporta decisioni meditate e poi comunicate con termini adeguati e nei tempi giusti; il suo modo di fare arrogante e sprezzante ottiene al contrario l’unico risultato di irritare non solo gli avversari ma anche gli amici e gli alleati.

Comunque, proviamo a mettere un po’ d’ordine nel ragionamento che si presume stia dietro ai pur scomposti atteggiamenti del Presidente americano.

Il punto focale è Taiwan, ovvero la cartina di tornasole delle ambizioni imperiali di Pechino. Ma oltre all’isola detentrice – e non è un dettaglio – della più importante produzione mondiale di microchip, c’è molto altro. C’è l’immensa capacità produttiva cinese, non più limitata a quella scadente e iper-economica di anche solo vent’anni fa. Al contrario, sono ormai i settori più all’avanguardia quelli preminenti. Nell’insieme, bene sottolinearlo, la produzione industriale cinese cuba un terzo di quella mondiale.

Trump vuole fare in modo che questo primato venga meno e crede che gli Stati Uniti siano in grado di insidiarlo, purché adottino una politica iper-nazionalista: solo così l’America potrà tornare “grande”. Si scrive e si legge Trump ma in realtà dietro di lui c’è Heritage Foundation, il centro studi iper-conservatore che da tempo individua nella Cina un pericolo assoluto per l’egemonia planetaria statunitense. Contrastare questa insidia vitale è fondamentale, a qualsiasi costo e con ogni mezzo: tutto è ammissibile, a cominciare dall’abbandono a sé stessa dell’Europa, se dovesse rivelarsi necessario. Per continuare con l’acquisizione di profondità strategica nell’Artico (da qui le rivendicazioni sulla Groenlandia) e con l’assoluto dominio sull’intero continente americano (da qui le nuove denominazioni geografico-marittime e soprattutto la ferrea determinazione nel voler pienamente controllare il Canale di Panama). Da qui pure il tentativo di avvicinamento alla Russia, sacrificando l’Ucraina, per distoglierla dalla tanto declamata “amicizia senza limiti” con la Cina.

Che l’attenzione prioritaria degli Stati Uniti si fosse trasferita dall’Atlantico al Pacifico era un fatto noto da ormai qualche lustro. Ma che lo fosse sino al punto di mettere in discussione la NATO, distruggere le relazioni occidentali e scassare l’economia mondiale francamente non lo immaginava nessuno. Tranne coloro che avevano studiato le radicali idee di base del MAGA poi veicolate per il grosso pubblico da un istrione capace di incantare i ceti popolari abitanti l’America più profonda, impoveriti dalle ricorrenti crisi prodotte (anche) dalla globalizzazione dei mercati e irritati da un’agenda lontana dai loro bisogni portata avanti da un Partito Democratico troppo influenzato da lobbies minoritarie ma molto potenti sul piano mediatico e presso le leadership politiche e intellettuali.

Ora che si è visto a che punto è capace di arrivare The Donald, ma pure quanto (forse) è disposto a riconsiderare, sarà bene per tutti, a cominciare da noi europei, aver ben presente la base di partenza sulla quale il tycoon ha costruito la propria vittoria elettorale: per saperlo contrastare, o per farlo ragionare. Avremo a che fare con lui ancora tre anni e nove mesi…