L’eccessiva concentrazione della proprietà dei media costituisce un problema per la democrazia e finisce per non incoraggiare la partecipazione alla vita politica e sociale. La campagna elettorale può divenire un’occasione per riaffermare l’inestirpabile carattere pluralistico della democrazia.
Giuseppe Davicino
Il trasferimento da Milano ad Amsterdam della quotazione in borsa di Exor, la holding controllata dalla dinastia Agnelli-Elkann, comporta, fra le altre cose, come ha osservato Lucio D’Ubaldo, il fatto che due fra i maggiori quotidiani italiani avranno i loro «editori di ultima istanza» in Olanda.
Un evento che offre l’occasione per ricordare che esiste un problema enorme di concentrazione della proprietà dei media. Per limitarci all’Italia, la gran parte di giornali e tv appartiene ad appena quattro gruppi: Gedi (controllata dalla suddetta Famiglia), Berlusconi, Cairo e Caltagirone. E a ben vedere, attraverso le partecipazioni societarie, gli “editori di ultima istanza” che contano, sono quasi tutti fuori dall’Italia, anche laddove almeno formalmente risultano gruppi italiani. Per trovarne un riscontro è sufficiente vedere chi comanda nelle due principali banche italiane.
Non va dimenticato che per molto, ma molto, di meno (il limite al possesso delle reti tv nazionali terrestri, pur in un contesto tecnologico che oggi appare preistorico), il mondo cattolico-democratico, assieme ad altre culture e movimenti, negli anni Novanta seppe mobilitarsi, con Rosy Bindi, Giovanni Bianchi e molti altri leaders, a difesa del pluralismo dell’informazione, anche attraverso il referendum del 1995.
Gli effetti dell’attuale sbilanciamento informativo, e culturale, li paghiamo nel venir meno, nella sostanza, di un effettivo clima di pluralismo dell’informazione, delle opinioni, delle idee e dei progetti politici. Se non si fa nulla, o troppo poco, per modificare questo stato di cose, allora poi non ci si deve scandalizzare più di tanto se il confronto effettivo sui temi dirimenti e cruciali dell’agenda politica, avvenga solo più a livello di vertice, di élites.
Con il confronto tra i partiti, nel momento che dovrebbe esaltare al massimo la democrazia, come quello della campagna elettorale e del voto, che tende a ridursi a coreografia, a folclore, a intrattenimento, a una relazione di tipo infantile e furbesca dei leaders politici con l’elettorato, per poi, una volta finita la “ricreazione” ripartire dagli stessi dossiers sui quali altri (tra cui probabilmente anche uomini «di alta qualità internazionale»), e ad altri livelli, si saranno scontrati e accordati per determinarli.
Una condizione oggettivamente sfavorevole per una iniziativa politica popolare, che parta dal basso, ma che presenta nuove possibilità di partecipazione, purché le si sappia cogliere, intercettando le attese di un corpo elettorale in buona parte deluso ma tutt’altro che indisponibile ad esercitare le proprie responsabilità. Solo desideroso di capire, con i propri strumenti e secondo i variegati punti di vista, cosa sta succedendo in questo tempo, cosa ci attende e dove si intende condurre il Paese. Cose grandi e complesse che è compito e dovere dei politici saper spiegare agli elettori in modo chiaro, e ridurre a una semplicità non fuorviante e meschina ma ricca e riassuntiva di un autentico progetto di governo. In modo armonico, se possibile, con un sistema informativo capace di valorizzare la ricchezza dei diversi approcci e punti di vista anziché divenire complice dello scadimento del livello del dibattito politico.