Se ci ponessimo davanti al grande orologio della Storia per cercare un nesso logico o causale al susseguirsi degli eventi, scopriremmo che mentre le lancette giravano beffarde senza ritardi ne’ accelerazioni, prevaleva nell’umanità una concezione strumentale e mercantile del tempo: quello utile, quello necessario, quello superfluo.

Senza accorgersi – gli uomini – che immaginando una concezione relativistica del tempo sovente non riuscivano a sottrarsi alla sua imperturbabile, silente, ingombrante tirannia. Questo fenomeno diventa gigantesco e preponderante in questa epoca di frenesia che sta producendo la fine della memoria, la morte dell’attenzione, l’oscuramento dell’identità individuale e sociale. Anche questa variabile temporale, comprimendo una miriade di esigenze e di input in spazi sempre più angusti e insufficienti, ha giocato un ruolo determinante sulla deriva critica del sistema. Il futuro, che l’economia mondiale ha cercato di addomesticare con il dominio della finanza, gonfiando a dismisura il credito, si è dissolto in una crisi di proporzioni planetarie.

Prevale un presentismo asfissiante, nel pensiero, nelle azioni, nelle speranze: tutto è accorciato, sintetizzato, sincopato, simultaneo. Tanto che i fautori della decrescita ipotizzano una sorta di mutazione antropologica dell’uomo contemporaneo: l’essere dappertutto, il cogliere tutte le opportunità in una sorta di vibrante, incontrollata tensione, trasforma l’esistenza in una specie di corsa inarrestabile verso una meta incerta, verso un traguardo che si sposta inconsapevolmente in avanti, oltre, indefinitamente. Il prevalere di quello che il filosofo Heidegger ha definito “il pensiero che fa di calcolo” ha determinato un ribaltamento nel campo dell’etica e dei valori: per questo oggi contano sempre meno gli uomini e sempre più gli interessi, in un processo che destruttura la società e crea ricchezze smisurate e nuove, a fronte di imprevedibili, emergenti povertà. Dove stiamo andando? Dove vogliamo andare? Chi vogliamo essere?

Questi sono gli interrogativi che il prevalere di nuovi modelli e stili di vita impongono all’uomo contemporaneo e spesso gli impliciti sono più carichi di significati ultimativi delle domande dirette, nella loro apparente retorica. In questa fase recessiva e di rallentamento dell’economia mondiale stiamo riscoprendo tutte le discrepanze e le discrasie delle teorie della crescita illimitata, i drammatici default dello sviluppo senza rete e senza fine. Serve, urge un nuovo umanesimo che rimetta al centro delle attenzioni e delle cure la persona: oltre i vantaggi tout-court, oltre il plusvalore, oltre le speculazioni monetarie e la crescita fine a se stessa. Occorre ricostruire una cultura del tempo misurato, che lasci spazio al loisir e all’immaginazione, ricollocando l’umanità in un contesto sostenibile, a cominciare dalla compatibilità ambientale di quello che impropriamente chiamiamo con troppa facilità “progresso”. Questa crisi epocale – che è anche generazionale – lascerà il segno: deve lasciarlo, affinchè si possano recuperare priorità e valori perduti strada facendo, con troppa disinvoltura.

Come sottolinea Umberto Galimberti bisogna imparare bene a distinguere tra la crescita e lo sviluppo da un lato e il vero progresso dall’altro: infatti non sempre coincidono, non esiste una correlazione consequenziale e speculare che si traduca in vero ben-essere.
I pifferai dello sviluppo no-limits devono ammettere di aver sbagliato ritmi e spartito, serve un coraggioso esame di coscienza presso i depositari dei poteri forti della politica e della finanza. L’algoritmo della diffusione smisurata ed allargata della ricchezza, lungi dal perseguire il risultato immaginato, ha prodotto un’altrettanto smisurata concatenazione di ingiustizie sociali.

E i temi del welfare e dell’equità non si impongono oggi solo in termini di redistribuzione quantitativa di beni e risorse poiché mettono al centro delle riflessioni e dei progetti il valore di una dignità umana troppo spesso mercificata e soccombente. E’ impensabile un’economia stabile senza una solida base etica: cinismo, avventure e speculazioni prima o poi pagano il dazio alla storia.
Anche perché, come ebbe a dire John Kenneth Galbraith: “Ogni tanto il destino si incarica di separare il denaro dagli stupidi”. Aggiungerei: “oggi purtroppo anche dagli onesti”.