Difficile commentare ciò che sta accadendo a Montecitorio per scegliere un nuovo Capo dello Stato.

Le elezioni del Presidente della Repubblica in Italia sono sempre state in un certo senso speculari ai sentimenti contingenti espressi dalla società civile : lo sparigliamento e la condizione di sospensione che si percepisce nel paese reale si riflette nelle incertezze e nelle indecisioni del paese legale.

Ogni elezione ha avuto una storia a sé – dai tempi delle convergenze parallele, alla logica dei due forni, dall’età dello stragismo, ai condizionamenti congressuali dei singoli partiti, dalle stagioni balneari e quelle dell’unanimismo anche stavolta la rappresentazione nel teatrino della politica si ripete. In epoca di soggettività e di mancanza di forte collante sociale i grandi elettori sono come i personaggi in cerca d’autore di cui narrava Pirandello. Tra strategie finte o presunte, tattiche, veti incrociati si gioca una partita che riguarda in primo luogo la quintessenza e l’esigenza principale della politica: la preoccupazione di non soccombere e di valicare questo ostacolo per prorogare la legislatura fino al termine naturale. 

La politica teme Draghi e non vuole farsi guidare da due tecnici, uno al Quirinale e l’altro a Palazzo Chigi. Mentre scrivo si è chiusa la quarta votazione dove astensioni e schede bianche l’hanno fatta da padrone:

magari domani vedremo la luce del sole e una fumata bianca, tutto è imponderabile giorno per giorno.

Intanto nel Paese tutto langue ed attende, mente la pandemia prosegue la sua corsa: i riflettori si sono spostati alla Camera e delle urne escono anche nomi irriverenti per un mandato alto e la scelta di una figura al di sopra delle parti, che anteponga gli interessi della collettività a quello delle coalizioni, la serietà del ruolo.

Questa volta la politica è come il re nudo che paga lo scotto di scelte sbagliate, di rappresentanze parlamentari non più rispondenti alla società civile, dove ciascuno postula una certa primazia. 

La consistenza spropositata del gruppo misto nelle due Camere spiega lo sfarinamento e il trasformismo di questa legislatura.

Il protagonismo dei capi partito dimostra che la democrazia come espressione della volontà popolare è un ossimoro che copre l’oligarchia di un ristretto numero di persone che oggi giocano ai dadi il nome del futuro ospite del Quirinale mentre per l’anno prossimo, alla scadenza del mandato, non hanno ancora indicato un sistema elettorale che premi il diritto di scelta dei cittadini: saranno ancora loro che stabiliranno i capilista dei collegi e quindi gli eletti sicuri, i vassalli e i valvassori fedeli.

Molti sanno che non torneranno più ad occupare gli scranni parlamentari e cercano di protrarre la propria agonia politica fino al termine del mandato.

Perché chi ha deciso la riduzione dei posti e la rimodulazione dei collegi elettorali non pare più disposto a mantenere fede alla promessa di evitare ricandidature oltre il doppio mandato.

Quando il Presidente del CENSIS Giuseppe De Rita, uno che di politologia se ne intende, afferma che la politica in crisi verticalizza sempre vuol dire che il gap che separa gente e istituzioni è destinato a divaricarsi. Questa democrazia si sta lentamente orientando verso scelte elitarie.

E la ricerca spasmodica e senza esito di un nome condiviso che rappresenti il Paese e l’unità di intenti nel perseguimento del bene comune è la rappresentazione plastica del più deteriore bipolarismo, la sua più negativa rappresentazione.

C’è molta spettacolarizzazione intorno a questo voto ma poche idee che orientino verso una persona che sia espressione del Paese e suo più alto garante: più si prolungano le trattative senza esito, più ne esce potenzialmente condizionata l’immagine della persona super-partes che si poteva concordare in questi mesi di attese inutili e di tatticismi e rinvii esasperati.

Tutti sanno in cuor loro che se fosse stato chiesto a Mattarella di rimanere al suo posto., se tutte le forze politiche – consapevoli della fase critica che stiamo  attraversando – si  fossero presentate al Quirinale con una proposta di ricandidatura forse oggi racconteremmo un’altra storia.

Spero di essere smentito: nomi autorevoli ce ne sono in giro, ciò che manca è l’umiltà del passo di lato, ogni forza politica  si ritiene depositaria del diritto di porre veti e di bocciare candidature altrui. Magari domani (oggi per chi legge) un nome può uscir fuori ed essere condiviso: il giorno della scelta è solo il primo di sette anni di lavoro che attendono il nuovo Presidente, calato il sipario sulla grande kermesse parlamentare tutti dovranno rimboccarsi le maniche e lavorare sodo. In un Parlamento annichilito nella propria autoreferenzialità e in un Paese profondamente disorientato c’è bisogno di qualcuno che sappia parlare a tutti.