Per gentile concessione pubblichiamo l’articolo che appare oggi sull’Osservatore Romano in occasione del trentennale della scomparsa della scrittrice italiana.
Sono passati trent’anni da che Natalia Ginzburg ci ha lasciato e i suoi scritti restano di una sorprendente modernità. Ben venga dunque, nel caso di Vita immaginaria (Torino, Einaudi, 2021, pagine 232, euro 12), una felice ristampa dopo l’unica edizione del 1974. Una personalità, quella di Ginzburg, oggetto di costante attenzione critica da parte di Domenico Scarpa che cura con sapienza amorevole la riedizione di quei brevi e intensi saggi, così come di altre raccolte che si spera verranno rieditate.
Nei lontani anni Trenta del secolo scorso Natalia Ginzburg fu autrice di uno scritto molto breve dal titolo Dire la verità. È un manifesto etico ed estetico che è poi valso per tutta la sua produzione ed è straordinariamente interessante rileggerlo oggi, in tempi molto mutati, affollati da un profluvio di libri soprattutto di narrativa. Quasi gli editori e gli autori avessero una “vis a tergo” che li spinge a immettere libri a getto continuo sul mercato. Comunque. Spesso opere esangui.
Natalia Ginzburg scrisse: «Dire la verità. L’artista che scrive deve sempre sentirsi capace di questo (…). L’artista non scrive una frase perché è bella, ma perché è vera». Vita immaginaria prende il titolo dall’ultimo scritto e raccoglie interventi sulle terze pagine di giornali italiani, «Corriere della Sera» e «Stampa» tra il 1969 e 1974.
In un primo blocco ci sono medaglioni di poeti, amici, letterati che vanno da Biagio Marin a Goffredo Parise, da Moravia a Bassani. Si tratta perlopiù di persone che l’autrice ha conosciuto, a volte frequentato, di cui ha seguito con interesse le opere. La sua voce è sempre colloquiale, carica di accenti di coinvolgimento emotivo, spesso severa, «paratattica» come la definì Cesare Garboli, un critico molto amico di Natalia.
Nel panorama del giornalismo italiano la voce di Ginzburg rompeva gli schemi, andava subito e talvolta impulsiva al cuore del giudizio critico. Né perifrasi, né encomi formali. Solo quel che le dettava la sua intelligenza di lettrice o, nel caso del cinema, di spettatrice. Una intelligenza mai disgiunta dall’emozione, mai fredda e bizantina.
Le sue parole erano sempre di una precisione luminosa, Garboli parlò di una «innocenza» che non era certo «ingenuità». Così come l’aggettivo «semplice» non è sinonimo di «elementare».
Dirette, incisive come un bisturi, ad esempio, le sue parole su una silloge di Bassani. «Siccome voglio molto bene a Giorgio Bassani, ed è un mio amico da molto tempo, mi dispiace dire che le sue poesie Epitaffio, non mi piacciono affatto, ma lo dico lo stesso, perché mi sembra che in questa nostra vita italiana, tutti passiamo il tempo a farci dei sorrisi, delle cerimonie, dei convenevoli, e non diciamo mai il nostro vero pensiero».
Naturalmente ogni giudizio, soprattutto se scabro e privo di ogni piaggeria — sarà così anche quello su Moravia di Io e lui — è articolato in maniera appassionata, profonda, conseguenziale. E, sempre, torna a quel che diceva a proposito della necessità per l’artista di dire la verità. Non la convince nella silloge di Bassani il fatto che predomini il sentimento della “soddisfazione” per i suoi versi. E «la soddisfazione è un sentimento di natura tiepida», «è vanitosa… è snob, … è opaca, fa contento solo chi la prova, e non manda agli altri né ombra, né luce». La vera poesia invece nasce da sentimenti verticali, luminosi o bui, come la felicità o la disperazione, «nasce dal dolore o dalla collera, da sentimenti non tiepidi».
Vita immaginaria, così come altri scritti non narrativi (Le piccole virtù, Mai devi domandarmi) ha il pregio di contenere anch’essa delle “storie”, intendo dire che in Ginzburg non c’è separatezza tra la voce dei romanzi, dell’opera teatrale e del giornalismo. Nelle pagine per la stampa, si tratti di un artista, di uno sguardo su Roma, di un film, ci sono sempre luoghi, momenti, ricordi che hanno il ritmo e la consistenza di un racconto. Così scrivendo di Biagio Marin vengono a galla la Torino della adolescenza di Natalia, le sale di lettura della “Pro cultura” dove veniva attraversata dalla sonorità della lingua gradese; e scrivendo di Antonio Delfini resta un fotogramma dello scrittore seduto a un tavolino del caffè Hungaria a Roma.
Ginzburg, quasi un vezzo, declina spesso, in apertura di pagina, di non essere un critico cinematografico, o teatrale, di capire poco di molte cose ma, pure, non rinuncia a dire la sua, con schiettezza, a volte con ruvida grazia ma sempre circostanzia ciò che dice con logica stringente. E al fondo delle sue opinioni resta sempre un rigore morale, un amore per la verità, forse frutto di un connubio tra cultura ebraica e valdese.
Insieme a certe sicurezze apodittiche c’è anche la declinazione di suoi pensieri contraddittori, oscuri e coesistenti. È il caso di come vive e vede Roma. Una città che è difficile amare, sempre più brutta, ma al contempo «meravigliosa». Più accese le contraddizioni dei suoi «pensieri sparpagliati» dopo l’attentato di Monaco agli atleti israeliani in Gli ebrei. A dominarla è l’orrore per quanto accaduto, la disumanità degli attentatori palestinesi. Lei, Natalia Levi, è per parte di padre ebrea e istintivamente è portata ad una «segreta complicità» con chi è ebreo ma, al tempo stesso, non le piace questo istinto perché contrasta con i valori in cui crede. La strage di Monaco la induce a riflettere sul rapporto tra Israele e palestinesi. Hanno ammazzato la “sua” gente ma, sentendo subito «disprezzo» per se stessa e questa reazione, scrive «Non voglio stare dalla parte di chi usa armi e cultura per opprimere contadini e pastori… La sola scelta che a noi è possibile è di essere dalla parte di quelli che muoiono o patiscono ingiustamente». E srotola davanti a noi questi suoi pensieri come un tappeto intessuto sempre di umana pietà, quasi una preghiera.