Papa Francesco ha lanciato un monito affinché le tante polemiche che minano la tempra della nazione vengano messe da parte. I politici superino le divisioni – ha detto il Pontefice – e capiscano che “nei momenti di crisi, devono essere molto uniti per il bene del popolo. Perché l’unità è superiore al conflitto”. In effetti, l’Italia ha bisogno di ridurre l’endemica conflittualità di cui si nutre una politica a digiuno di valori. L’esasperazione del conflitto si riflette conseguentemente sulla bulimia dei web in fatto di polemiche e dileggio. A pagarne il conto è il subconscio collettivo della nazione. Del resto, se ci lasciamo prendere dal pessimismo non rendiamo un servizio utile al nostro Paese. Benché lo spirito del tempo non sia quello del secondo dopoguerra, cade comunque su di noi l’onere di pensare positivamente a uno scenario di ricostruzione.

L’unità non significa governare tutti assieme, prefigurando in buona sostanza la cacciata dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi. Non si capisce, a riguardo, quale possa essere lo sbocco vagheggiato dai poteri esterni alla politica. Dopo Conte non c’è Draghi, né il governo di unità nazionale: inutile illudersi sulla pianificazione di eventi incontrollabili. La crisi, invece di risolversi, scivolerebbe nel gorgo delle elezioni anticipate e altro non sarebbe che un tuffo nell’ignoto, con rischi di destabilizzazione. Non è un che nelle battute più recentii partiti di opposizione abbiano messo la sordina alla richiesta di ricorso anticipato al voto. Prudenza mista a convenienza? Quale che sia la ragione, palese o nascosta, risulta evidente come la conflittualità finisca a questo punto per disperdersi nel maremagnum della quotidiana dialettica antigovernativa.

L’unità va ricercata a tutti i costi e forse, allargando lo sguardo oltre i confini nazionali, può essere agguantata. È in Europa infatti che questa esigenza fondamentale prende posto al tavolo delle discussioni sul futuro dell’Unione (e quindi dell’Italia). Qui davvero sarebbe illogico e deprecabile replicare uno spettacolo di bassa concorrenza tra opposti schieramenti. Giova immaginare qualcosa di diverso. Ad esempio Sassoli e Tajani, l’uno Presidente in carica dell’Europarlamento e l’altro suo immediato predecessore, notoriamente legati in Italia a forze politiche diverse e finora antagoniste, potrebbero disporsi a facilitare in via emblematica una più stretta cooperazione nell’interesse superiore del Paese.

Verrebbe da obiettare che il rischio nascosto è l’astrattezza della suggestione, quasi un segno di cedimento a una forma di romanticismo; ciò nondimeno, fatto salvo il genuino presupposto del realismo, la politica va oltre l’asettica proiezione delle aspettative materiali. Conta molto, più di quello che si creda, la forza di attrazione di un sano simbolismo. Indubbiamente un gesto condiviso in un ambito di responsabilità sovranazionale – e Sassoli e Tajani non hanno bisogno di suggerimenti – può far scattare in Italia la scintilla del ritorno alla fiducia da parte dell’elettorato, specie nella sua espressione di ceto medio, colpito negli ultimi anni da un’altra pandemia: quella dell’antipolitica. Ripensare un modello di sviluppo, superare vecchie e nuove fratture di natura sociale o territoriale, promuovere le condizioni di maggiore solidarietà tra persone e gruppi sociali; tutto ciò equivale, se possibile, a congegnare l’articolazione di un processo gigantesco, denso di incognite, che assomiglia già da adesso a una vera rivoluzione.

Certo, nessuno può immaginare che in Europa si consacri per magia, grazie a figure altamente rappresentative, la formula più adatta a piegare le difficoltà della politica nazionale. A questioni complesse non si risponde con la magia della semplificazione. Sta di fatto però che una qualche “iconografia europeistica unitaria”, capace di valorizzare la voglia degli italiani a rimettere in piedi l’economia dopo lo schock da coronavirus e quindi a ricostruire i pilastri morali e civili del Paese, non pare sia un orpello da politica-spettacolo. D’altronde, in netto contrasto con la narrazione del sovranismo, va detto a voce alta che il futuro dell’Italia passa obbligatoriamente per l’Europa.

Oggi si respira un’aria diversa. Siamo vicini a una traduzione in chiave operativa delle intese raggiunte nei vertici ufficiali. Saranno mobilitate risorse ingenti, come nessuno avrebbe mai congetturato fino a pochi mesi fa. A Bruxelles prenderà il via un’operazione di portata storica, senza precedenti, destinata a cambiare il volto del Vecchio Continente. Bisogna starci, in questo quadro, con idee chiare e slancio morale. E dunque vale la pena in conclusione ragionare attorno alla congruità di un atto di dedizione –  appunto di due autorevoli europarlamentari – a un autentico e beninteso amor di patria, con la volontà di ripartire sulla scia di una speranza che muova da un nuovo sentimento europeista.