Le Destre, quella nostalgica e rancorosa di Fratelli d’Italia, quella triviale e pretenziosa della Lega e quella non sempre allineata ma ormai sommessa di Forza Italia, lo avevano scritto nei loro programmi e promesso ai loro elettori. Lo avevano dichiarato pubblicamente ed ora lo ribadiscono a suon di provvedimenti legislativi e di atti di governativi con una tempistica che si richiama più ad un accordo tra sodali interessati alle loro reciproche fortune che ad una programmazione legislativa ed operativa tra alleati di governo finalizzata a perseguire i reali interessi del Paese.

Li abbiamo visti arrivare nel loro clamore e nella loro apparente incoscienza delle conseguenze e dei guasti che le loro populistiche e raffazzonate decisioni avrebbero causato sul tessuto politico, economico, sociale e culturale della comunità nazionale.

Al netto di iniziative diciamo discutibili, come la decisione di tornare indietro sulla rinuncia alla costruzione del Ponte sullo Stretto e come il confuso accordo con l’Albania per la gestione degli immigrati, per i quali in passato avevano caldeggiato il cosiddetto “blocco navale”, il primo vero e forte segnale lo hanno fatto pervenire alle forze politiche di opposizione (ed al Paese tutto) con la approvazione, pressoché in contemporanea, al Senato, in prima deliberazione del disegno di legge sul premierato e alla Camera, in via definitiva, della legge sulla Autonomia regionale differenziata.

Su questo ultimo punto provvederemo ad intervenire in un secondo ma prossimo momento, mentre rispetto al disegno di legge sul premierato non abbiamo nessuna remora a definirlo immediatamente un “mostrum giuridico” sul quale intendiamo avviare “hic et nunc” una riflessione a nostro avviso necessaria e perentoria.

Il ddl n. 935 approvato in Senato il 18 giugno, si prefigge di assicurare al paese non un leader bensì un capo i cui poteri saranno tali da far assumere al governo una posizione di assoluta preminenza all’interno del sistema, a scapito del Parlamento, del Presidente della Repubblica e degli altri poteri dello Stato.

I dubbi sulla qualità della riforma proposta sorgono anzitutto da un’analisi comparatistica in quanto, salvo il fallimentare caso israeliano archiviato dalla storia nel 2001, non rilevano ulteriori esperienze analoghe. Le ragioni dell’assenza di floride ipotesi di premierato sono molteplici e risiedono principalmente nell’estrema rigidità di un modello che fonda le sue radici nella puerile idea per la quale sarebbe possibile disinnescare surrettiziamente le crisi di governo. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, al macchinoso sistema “anti-ribaltone” descritto nella riforma, in base al quale a fronte di un fallimento del capo, nel maldestro tentativo di blindare gli esecutivi, si instaurerebbe un pericoloso “vincolo di fedeltà” dei parlamentari di maggioranza in evidente contrasto con il divieto di mandato imperativo sancito dall’art. 67 della Costituzione.

In secondo luogo, rileva il pericoloso inserimento in Costituzione di un sistema elettorale che attribuisce il 55% dei seggi alla coalizione vincente per mezzo di un premio di maggioranza senza soglia minima di accesso. Tale impostazione si pone in aperto contrasto con la posizione della Corte Costituzionale che, nella sentenza n.1 del 2014, ha censurato un tale artifizio in quanto potenzialmente lesivo del principio costituzionale di uguaglianza del voto. In effetti, siffatto “premio”, consentirebbe ad una lista con un’esigua maggioranza relativa di acquisire artificiosamente la maggioranza assoluta dei seggi per sostenere un capo in grado di esercitare, il potere di revisione costituzionale, di eleggere il presidente della Repubblica, i giudici costituzionali e i presidenti delle Camere.

Una tale riforma, alla luce di quanto detto, non merita di essere condivisa poiché la sua entrata in vigore determinerebbe uno stravolgimento della nostra democrazia parlamentare, già ferita dalla tracotanza dei governi attraverso il costante abuso dei decreti-legge, la compressione sistematica della discussione parlamentare e l’utilizzo indiscriminato della questione di fiducia.

Per garantire la tanto agognata “governabilità” e porre un argine alla crisi dei partiti la soluzione non può dunque essere il premierato ma, piuttosto, si potrebbe fornire nuova linfa ai canali della partecipazione popolare rafforzando, ripensandone le funzioni, i luoghi della rappresentanza nella prospettiva di una nuova centralità del Parlamento. In termini pratici, si propone di:

1) intervenire sul modello bicamerale, ormai mortificato da una prassi “monocamerale de facto”;

2) riformare il sistema elettorale in senso proporzionale al fine di dare piena rappresentanza alla plurale articolazione politica del Paese;

3) prevedere in Costituzione strumenti di razionalizzazione del sistema parlamentare diretti a rafforzare la stabilità del governo come la cosiddetta “sfiducia costruttiva” tipica del sistema tedesco.

Di tali proposte, purtroppo, non vi è traccia nel disegno di legge costituzionale recentemente vagliato a Palazzo Madama e la “reductio ad unum” paventata dal premierato minaccia un totale svilimento del parlamentarismo e del pluralismo visti non già come una ricchezza, dando seguito alla visione dei Costituenti, bensì alla stregua di un insormontabile limite in un contesto sociale e politico sempre più drammaticamente polarizzato.

Codesta riforma costituzionale pare esser portatrice di effetti ancor più detonanti se analizzata in combinato disposto con la cosiddetta “autonomia differenziata”. In effetti, si verrebbero a delineare i contorni di un Paese governato “a livello centrale” secondo un principio verticistico lesivo delle diverse culture politiche mentre, “a livello periferico”, si avrebbe una netta e pericolosa accentuazione del già presente divario tra Nord e Sud in termini sia economici, sociali e culturali, sia in termini organizzativi con un certo aggravio di carattere burocratico che rischia di paralizzare il già fragile tessuto produttivo italiano. Per un approfondimento sulle insidie dell’autonomia differenziata rimandiamo, come anticipato, ad un prossimo contributo nel frattempo segnaliamo che se è vero che la Costituzione è perfettibile e può essere emendata ai sensi dell’articolo 138, è altrettanto vero che per farlo occorrerebbe un clima politico di confronto e condivisione tipico dei momenti costituenti che oggi, nel radicalismo ideologico di un bipolarismo artefatto, non pare scorgersi neppure all’orizzonte.