Perché riproporre oggi la visione democratica di Henry A. Wallace, vicepresidente degli Stati Uniti durante la presidenza di Franklin Delano Roosevelt, e metterla a confronto con la figura del forgotten man evocata da Donald Trump? La risposta non sta nella nostalgia né in un esercizio di storia comparata, ma nella necessità di una verifica culturale sul senso stesso della democrazia nel tempo presente.
Wallace non è una figura laterale del Novecento americano. È il vicepresidente di un’America che entra in guerra contro l’Europa nazi-fascista per salvare l’Europa democratica, non per isolarsi dal suo destino. In quel passaggio decisivo, l’Atlantico non doveva separare due mondi, ma tenerli insieme, come spazio condiviso di una civiltà politica fondata sulla dignità della persona, sulla libertà e sulla giustizia sociale.
Il “common man”: una promessa democratica
Nel 1942 Wallace pronuncia il discorso destinato a restare come il suo lascito politico più significativo: The Century of the Common Man. Non è un manifesto ideologico né un testo per specialisti. È una dichiarazione di principio rivolta al mondo. Alla retorica dell’“uomo forte” e degli imperi, Wallace oppone l’idea che il secolo che si apre debba essere quello dell’uomo comune, riconosciuto nella sua dignità e posto al centro della vita democratica.
Il common man non è una categoria sociologica né una folla indistinta. È il soggetto di una promessa universale: libertà politica e giustizia sociale non sono alternative, ma condizioni che si tengono. La democrazia, in questa visione, non si esaurisce nel voto o nella competizione tra élite; è un ordine morale e civile, fondato sull’idea che ogni persona abbia valore in quanto tale e che le istituzioni abbiano il compito di rendere effettiva questa dignità.
Il “forgotten man”: il popolo come identità ferita
A distanza di decenni, Donald Trump costruisce il proprio successo politico attorno a una figura solo in apparenza analoga: il forgotten man, l’uomo dimenticato. Qui il registro cambia radicalmente. Non c’è una promessa universale, ma una narrazione del torto subito. Il popolo è chiamato a riconoscersi come escluso, tradito, minacciato.
Il forgotten man non diventa il centro di un progetto di emancipazione, ma di una mobilitazione identitaria. La politica non ricompone: polarizza. La democrazia tende a ridursi a plebiscito permanente, la leadership a rappresentazione diretta del risentimento. Non si allarga l’orizzonte dei diritti; si moltiplicano i nemici.
Due antropologie politiche
Il confronto tra Wallace e Trump mette in luce due antropologie politiche inconciliabili. Da un lato, l’uomo come essere relazionale, portatore di diritti che rafforzano la comunità e rendono possibile la convivenza democratica. Dall’altro, l’individuo definito dalla paura, dalla competizione, dal bisogno di protezione identitaria.
Nel primo caso, il popolo è fine della politica. Nel secondo, ne diventa strumento. Nel primo, la democrazia tende all’inclusione. Nel secondo, vive di esclusione e semplificazione.
Una verifica per l’Occidente
Riproporre Wallace oggi significa interrogare l’Occidente nel suo insieme, e l’Europa in modo particolare. In una fase segnata dalla crisi delle istituzioni rappresentative e dall’impoverimento del linguaggio politico, la questione non è scegliere tra élite e popolo, ma tra una politica che riconosce la dignità dell’uomo e una che ne sfrutta le ferite.
Il legame euro-atlantico nasce anche da questa visione: dalla convinzione che la democrazia non sia un fatto contingente o identitario, ma una responsabilità condivisa, radicata in un umanesimo politico capace di tenere insieme libertà, giustizia e solidarietà. È su questo terreno che la cultura politica europea è chiamata oggi a una verifica non eludibile, se non vuole consegnare il futuro della democrazia al solo linguaggio del risentimento.

