Quando è ancora un candidato alla presidenza, Trump dice in una conferenza stampa: “Penso che potrei avere una buona relazione con la Russia e con il presidente Putin. Sarebbe un’ottima cosa”. Subito, per aver messo in programma ciò che ogni presidente americano da Eisenhower in poi ha provato a fare – dialogare con i leader del Cremlino per tenere lontana la guerra – Trump viene condannato da molte voci in Congresso, nei maggiori media e in ambienti di politica estera. Per istinto, Trump avverte la necessità di non isolare la Russia e di impostare un vero “reset” (non quello ambiguo e fallito degli anni di Obama) con la Russia. Comprende che relazioni migliori sarebbero “un’ottima cosa”. Gli rispondono l’ostilità di molti politici, la parzialità dei media, l’attivismo di finanzieri globalisti e quello che possiamo definire il complotto nei vertici della Giustizia e dell’FBI obamiani. La russofobia è fuori controllo negli USA: da sempre latente in alcuni ambienti, oggi essa è divenuta uno strumento per combattere Trump. La russofobia è una malattia della psiche di alcuni cosiddetti “esperti” di politica estera; è una veste indossata da scadenti truppe mediatiche; è un virus di facile trasmissione al pubblico; è una tattica per condurre la guerra al governo Trump. Purtroppo, Trump ha finora perduto questa battaglia, per i motivi che diremo. Si tratta di una delle due maggiori sconfitte, insieme alla mancanza di cambiamenti importanti in materia di immigrazione, della sua presidenza fino a oggi.
I senatori Repubblicani affetti da russofobia dimenticano che Reagan preparò la fine della guerra fredda anche dialogando con Gorbaciov, contro le resistenze interne al GOP. Oggi come al tempo di Reagan, vitali interessi USA richiedono il dialogo con la Russia: per contenere la diffusione di armi e materiali nucleari; per opporre un fronte comune all’estremismo islamico; per frenare il riarmo e l’espansionismo della Cina; ed altro. Dunque vi è una responsabilità del GOP. Ma la crisi nel rapporto con la Russia ha come causa primaria la falsa indagine del procuratore Mueller in cerca di un crimine che non è mai avvenuto, cioè la collusione della squadra di Trump con agenti russi durante la campagna elettorale. L’indagine fu montata dai Democratici e dai vertici della Giustizia, dell’FBI e della CIA nominati da Obama. La truffa delle “ingerenze” russe come motivo della vittoria elettorale di Trump, benché risibile (le ingerenze furono le ordinarie attività di spionaggio russo, aggiornate all’epoca di Facebook e di Twitter), è in atto da due anni ed è resa possibile dalla corruzione dei media ostili a Trump e dall’ostilità degli ambienti che combattono il presidente. La realtà è che non vi fu un “attacco” alla democrazia americana, non vi fu una Pearl Harbor attuata dai russi, ma soltanto la presenza, nelle elezioni altrui, che USA e Russia praticano da quasi un secolo. Una presenza di entità molto minore a quella, per esempio, del tentativo del governo Obama di far perdere le elezioni israeliane a Netanyahu nel 2015, o del coinvolgimento USA nelle elezioni in Ucraina nel 2014.
Fin dal 2014, dopo l’annessione da parte russa della Crimea a seguito di un referendum il cui esito era poco dubbio in una penisola abitata al 60% da russi – esito, peraltro, del tutto in conformità con la storia, che dal tempo di Caterina II, dunque per oltre due secoli, ha visto la Crimea come una regione russa, mentre fu ucraina soltanto nei due decenni seguiti alla dissoluzione dell’URSS – fin dal 2014 le sanzioni economiche sono il risultato della russofobia di Washington. Arrivato alla Casa Bianca, Trump non è riuscito a togliere le sanzioni per avviare un dialogo; anzi, sotto la pressione di parte del Congresso, e per sottrarsi alle accuse disoneste di favorire Putin, ne ha autorizzate altre. Si tratta di un cedimento che si può comprendere (in un contesto di isteria strumentale in cui, per esempio, il ministro della Giustizia Sessions abdicò a parte del proprio incarico per sottrarsi alle accuse di aver incontrato l’ambasciatore russo e in cui, per ogni persona vicina a Trump, parlare con un russo sembrò divenire un crimine), ma che non si può condividere. Il che non significa approvare sempre le azioni del governo russo. Vi sono molte cose nella politica russa verso l’estero da esecrare. Anzitutto la vendita di armi all’Iran e alla Cina. Ma la strada per modificare le scelte del governo russo è quella del dialogo e della trattativa, non delle sanzioni.
Durante gli oltre 40 anni di guerra fredda, gli USA hanno imposto più volte sanzioni all’URSS, spesso in relazione alle esportazioni occidentali di tecnologia, e accompagnate da periodiche espulsioni di diplomatici e agenti di spionaggio. Non vi fu allora, e non vi è oggi, indicazione che le sanzioni abbiano modificato la politica del governo di Mosca nella direzione voluta. L’effetto delle sanzioni ricade sulle classi russe meno abbienti, che dai tempi di Pietro il Grande tendono a raccogliersi intorno alla leadership del Cremlino. Le controsanzioni russe, per esempio quelle che bloccano l’import di prodotti alimentari, accrescono il disagio della popolazione, ma non ne modificano la tenacia. Nel luglio 2018, dunque nel momento in cui Trump si preparava a incontrare Putin nel primo vertice tra i due leader, il Congresso USA ha approvato, con antipatica maggioranza bipartisan, nuove sanzioni economiche verso la Russia, oltre all’espulsione di diplomatici. Per quattro giorni Trump ha cercato di non firmare la legge, che aveva una maggioranza in grado di scavalcare il suo veto; poi ha ceduto.
Oltre alle sanzioni, un’altra conseguenza della russofobia di Washington e del fatto che essa è diffusa anche in think-tank maggiori e nei circoli di politica estera, è quella di aver indotto Trump a decisioni di contrasto alla Russia. Tra le più vistose e futili, vi è il raid punitivo in Siria nell’aprile 2017, del quale la parte più saggia fu di non colpire e non mettere in pericolo i russi (del resto non vi furono perdite nemmeno tra i siriani, segno che il regime, avvertito dai russi, aveva evacuato gli obiettivi colpiti). Ma soprattutto: Trump ha rafforzato la NATO, portando la Germania e altri paesi ad aumentare il proprio contributo al bilancio comune. Ha approvato manovre militari negli stati baltici e altrove. Ha cercato di ostacolare, con scelta indebita, il completamento del Nord Stream II, il gasdotto che aumenterà l’export russo di energia verso la Germania. Ha proposto all’Unione Europea, con successo, di aumentare gli acquisti di gas naturale dagli USA, riducendo quelli dalla Russia. Ha contenuto le ambizioni russe ben più di Obama, che approvò la vendita del 20% dell’uranio USA a Mosca, cancellò il progetto di difesa anti-missili nell’Europa dell’Est, tagliò la difesa USA indebolendo la NATO, accettò donazioni russe per milioni di dollari alla fondazione Clinton: il che, se fatto da Trump, sarebbe motivo per accuse di “collusione” e progetti di impeachment.
Una concessione di Trump agli ambienti anti-russi è stata quella di fornire armi letali, in particolare missili anti-carro, al governo ucraino. L’intenzione di portare l’Ucraina vicina alla NATO, se non nella NATO, è radicata a Washington, ma è pericolosa (ed è ingiustificata, almeno per quanto riguarda l’Ucraina nella sua totalità, non soltanto l’Ucraina occidentale). Troppi politici nel Congresso USA sostengono la linea del governo di Kiev di cercare una soluzione militare per riprendere il controllo delle due province separatiste nel Donbass. Tale soluzione non esiste, perché la Russia non la consentirà. Da anni Kiev mette in atto il blocco economico e commerciale delle due province, e non accetta la proposta di Putin, ribadita nell’autunno 2018, di concedere l’autonomia alle repubbliche del Donbass. Ma come la Russia non poteva perdere il porto di Sebastopoli in Crimea, considerato un perno della strategia russa nel Mar Nero e nel Mediterraneo, come la Russia non poteva lasciare alla Georgia la provincia filorussa dell’Abkazia e la sua costa, così la Russia non può consentire che il separatismo delle due province del Donbass venga soppresso con la guerra. Per questo motivo gli aiuti militari all’Ucraina vanno ponderati. La fobia antirussa di alcuni ambienti USA non conosce misura. Dopo l’inaugurazione dello splendido ponte che collega il continente russo alla penisola di Kerch in Crimea senza attraversare terre ucraine, e che con i suoi 18 km è tra i più lunghi del mondo ed è considerato un grande traguardo di ingegneria, quando un giornale (il Washington Examiner) ha pubblicato un articolo in cui si affermava che l’aviazione ucraina potrebbe decidere di bombardare il ponte, non vi è stata nei media più diffusi una denuncia del delirante articolo. Anche riguardo alle relazioni con la Russia, un rinnovo di responsabilità nei media è urgente.
L’estate 2018 ha visto due eventi cruciali per le relazioni tra il governo Trump e la Russia. Il primo è stato il vertice NATO in luglio a Bruxelles, dove la richiesta di Trump agli europei – richiesta che da due decenni arriva dai presidenti americani – di aumentare il loro contributo alla difesa comune ha portato alcuni governi europei a impegnarsi per alzare lentamente (entro il 2024!) la spesa per la difesa, fino al 2% del PIL previsto dagli accordi. A Bruxelles la NATO ha confermato l’aumento di truppe stanziate negli stati baltici, in Polonia e in Romania, da 2 mila a 15 mila uomini; ha previsto di costituire nuove brigate con mezzi blindati e di tenerle ai confini della Russia, insieme a stormi aerei e navi da guerra nel Baltico. Sembra esservi sfiducia, o timore, nei confronti di possibili iniziative russe. Però il messaggio centrale del vertice di Bruxelles è il riconoscimento che gli USA non sono più né ricchi né potenti a sufficienza per garantire da soli la sicurezza dell’Europa. Come la presidenza Trump ha reso pubblico che gli USA non possono più sussidiare il commercio mondiale con i loro deficit commerciali e con accordi sbilanciati, e come la presidenza Trump dovrà – se la situazione politica negli USA lo consente – mettere limiti a un’immigrazione che da tre decenni avviene con numeri non sostenibili, così Trump a Bruxelles ha comunicato che gli USA non possono più contribuire al 75% del bilancio NATO, come avviene dal 1949, e ha presentato l’esigenza di una maggiore simmetria nel contributo di partner e alleati.
Il secondo evento, sempre in luglio, è stato l’incontro tra Trump e Putin a Helsinki. La sostanza dell’incontro e il suo obiettivo, che tutti avrebbero dovuto sostenere, erano il benvenuto tentativo di Trump di dialogare con una potenza fornita di armi nucleari e percorsa da istinti revanscisti. Invece l’opposizione a Trump negli USA e gran parte dei media occidentali hanno dato corso a un’indecente farsa, motivata da intenti di propaganda e non di informazione. Nel momento in cui i maggiori media americani (confusamente imitati da quelli italiani) hanno raccolto, da alcuni indegni politici Democratici, le accuse a Trump di essere un’agente di Putin e di lavorare contro gli interessi americani, il crollo di credibilità e la corruzione di quei media hanno raggiunto un punto di non ritorno. In vista del vertice di Helsinki il Deep State (lo “stato profondo”) si era attivato: si comincia con il vice ministro della Giustizia Rosenstein, che cinque giorni prima del vertice annuncia condanne verso dodici agenti dell’intelligence russa per attività hacker durante le elezioni. Le condanne sono futili, perché gli agenti russi non verranno mai estradati. Quando poi, durante il vertice, Putin propone che gli avvocati del procuratore speciale Mueller, che ha “indagato” sui fatti, si rechino in Russia per interrogare – alla presenza di procuratori russi – gli agenti accusati da Rosenstein, e quando Trump esprime apprezzamento per la proposta, contro di lui si avventano i media e lo “stato profondo”, per i quali la “trasparenza”, come la giustizia post-obamiana, funzionano a senso unico. In realtà, se agenti russi hanno spiato sui server della Convenzione Democratica (non di quella Repubblicana), perché gli avvocati di Mueller non dovrebbero recarsi a Mosca per chiarire il caso? Risposta: perché tutta la problematica è falsa.
Dopo la conferenza stampa a conclusione dell’incontro con Putin, l’ostilità verso Trump dei maggiori media e di chi ha molto da nascondere va fuori controllo. In risposta a una domanda tendenziosa di un giornalista americano, Trump, molto stanco dopo quattro ore di incontro con Putin, con cattiva scelta di parole sembra mettere in dubbio le indicazioni dell’intelligence USA sull’hackeraggio russo della Convenzione Democratica e sembra mettere sullo stesso piano le conclusioni dell’intelligence USA – la quale, in ogni caso, afferma che le attività hacker non hanno in alcun modo influenzato il voto e l’esito elettorale – con le affermazioni, divergenti da quelle conclusioni, di Putin. Di certo Trump poteva rispondere in modo più accorto a una o due domande. Ma non mettere in questione l’intelligence di Obama? È vero, le attività hacker dei russi sono confermate dall’attuale direttore dell’intelligence, Dan Oates. Ma i dubbi sono leciti, a causa della sistematica corruzione emersa ai vertici della Giustizia obamiana, della CIA e dell’FBI, i quali hanno costruito un’indagine infondata e lesiva ai danni di Trump, ed hanno occultato le azioni illegali, alcune di dimensione criminale (come le notizie false fornite alla stampa), compiute per ostacolare la presidenza Trump. In prima linea nell’attacco a Trump dopo la conferenza stampa (e per settimane sui media) vi sono l’ex direttore della CIA Brennan, che ebbe un ruolo centrale nel montare la truffa della “collusione” con i russi e che fu al centro del complotto; l’ex direttore dell’intelligence Clapper, grottesco anfitrione di programmi televisivi; e l’ex direttore dell’FBI Comey, che fu licenziato da Trump e il cui tentativo di presentarsi come una vittima non lo salverà, se vi sarà un’indagine sui fatti di corruzione a cui ho accennato, dall’imputazione di aver commesso reati perseguibili. Poi, in prima linea vi sono tristi nuovi arrivi: l’ex direttore della NSA Hayden, che in TV ripete, come ossessivi vizi infantili, accuse insensate; e l’ex direttore della CIA Panetta, l’ultimo contagiato dallo squilibrio anti-Trump: il povero Panetta che, da vecchio, macchia con affermazioni ridicole (se Trump parla così, Putin “deve avere qualcosa su di lui”) una carriera peraltro rispettabile. E intanto si prepara a scendere nella contesa, in vista delle elezioni di novembre, Obama, l’Unto della sinistra, il quale a sua volta ha molto da nascondere in quanto ad iniziative anti-Trump.
Molto grave è l’accusa a Trump di “tradimento” da parte di Brennan, il quale la espone, con la faccia da pazzo, sulla rete MSNBC. Il tradimento è il crimine definito in modo più specifico nella Costituzione americana (scritta quando il tradimento di Benedict Arnold aveva da poco messo a rischio la battaglia per l’indipendenza dall’Inghilterra); è un crimine che prevede la legge marziale e la pena capitale. Nella storia USA è accaduto raramente che l’accusa fosse imputata. Persino i coniugi Rosenberg, che consegnarono segreti militari all’URSS, furono processati per spionaggio, e non per tradimento. Eppure per giorni la CNN e altri media ospitano contributi che accusano Trump di tradimento. Il collasso di professionalità è intenzionale. Quando i social media pubblicano immagini di Trump colpito a morte o decapitato (però censurano e silenziano le opinioni dei conservatori); quando l’ex direttore della CIA, un’agenzia il cui mandato è difendere il paese dalle minacce, diviene un militante delle reti TV che fanno la guerra a Trump; quando i vertici del partito di opposizione parlano dell’incontro di Trump con Putin come di una nuova Pearl Harbor; quando alcuni senatori Repubblicani (Sasse, Flake, Corker) attaccano Trump per quell’incontro; quando i Democratici non denunciano il fatto che l’ex ministro degli Esteri del governo Obama, Kerry, incontri i vertici del regime iraniano e alle spalle del governo Trump chieda loro di “pazientare” in attesa che Trump sia estromesso (facendo qualcosa di molto vicino al tradimento, e comunque violando la legge in materia); quando tutto ciò avviene in modo impunito, allora qualcosa di grave sta accadendo.
I Democratici e i globalisti nel GOP hanno, o fingono di avere, la memoria corta in quanto a dialogo con il Cremlino. Nel 1945, a Yalta, Franklin D. Roosevelt lasciò a Stalin l’intera Europa dell’Est, chiedendo al generale Patton di riportare indietro la sua armata, in uno dei più deleteri errori strategici e di valutazione politica della storia americana. Nel 1961, dopo l’incontro a Ginevra di John Kennedy con Kruscev (incontro che Kennedy, nella lettera a un amico, definì “la cosa peggiore che ho fatto in vita mia”), l’URSS installò missili nucleari a Cuba e poi costruì il muro di Berlino. Nel 1975, a Helsinki, nell’incontro con Breznev, Gerald Ford riconobbe il concetto di una sovranità russa sull’Europa dell’Est; e ancor più concessioni a Breznev fece Carter nel 1979, a Vienna, nel momento di massima espansione russa in due continenti. Quanto a Obama, nulla ha fatto per proteggere gli USA dagli hacker russi o cinesi, nulla per impedire il controllo cinese di acque internazionali nel Mare della Cina del Sud. Obama non ha attuato il promesso “reset” delle relazioni con la Russia: ha trascurato e rovinato quelle relazioni con le sanzioni economiche, mentre si occupava a revocare le sanzioni all’Iran e aveva cura che al regime iraniano, sponsor del terrorismo e nemico dell’America, arrivassero 150 miliardi di dollari a seguito della revoca. Dunque il dialogo che Trump aveva in programma con Putin, oltre a essere coerente con la storia diplomatica degli USA, era ed è un antidoto all’incongrua e pericolosa russofobia di ambienti politici americani. Purtroppo, come il muro sul confine messicano e come la correzione di dissennati programmi di immigrazione legale, quel dialogo è per il momento interrotto. In attesa di riprenderne la costruzione, mi sembra urgente che il Congresso, i leader del GOP e la parte integra dell’informazione mediatica riconoscano che non la Russia, bensì la Cina, è l’antagonista invadente verso cui modificare decenni di politiche miopi e perdenti. Di questo parlerò in un prossimo articolo.