“People change, and smile: but the agony abides” (Eliot, “Four Quartets”). Chissà cosa va in scena nel backstage di quel che appare del nostro prossimo… . Il 30 Giugno del 1956 Enzo Ferrari, nell’agenda dove teneva “un aggiornatissimo diagramma delle albumine, del peso specifico dell’urina, del tasso azotemico del sangue, della diuresi eccetera” scrive: “la partita è perduta”. “Chiusi l’agenda; dissi: ho perso mio figlio, e non ho trovato che lacrime”.
Se n’era accorto nei primi giorni dell’Estate di qualche anno prima, quando con Dino era andato a fare una gita su per il bastione del Titano. “C’erano i colori accesi di quella stagione, era un giorno di festa. Dalla piccola radiolina che mi portavo dietro arrivavano le notizie di Le Mans: stavamo per vincere. Dino sorrideva, ma il suo passo nel salire era pesante e il suo respiro faticoso. Avvertii che stava per lasciarmi. Da quei bastioni guardavamo la valle, per un attimo pensai di abbracciarlo e di gettarmi con lui nel vuoto: è in quel momento che mio figlio ha incominciato a morire”. Distrofia muscolare. Ventiquattro anni. Domenica 24 Giugno, pochi minuti dopo che il padre, con cui condivideva la passione artigiana per l’ingegneria dei motori e la bellezza di design mai più da altri raggiungibili, lo ha informato della vittoria di Collins con la Ferrari 625 LM nel Gran Premio Supercortemaggiore di Monza, Dino sorridendogli per un’ultima volta gli dice “Papà, è finita”. Poi l’emorragia cerebrale. Ferrari mette gli occhiali da sole nella piovosa Domenica 1° Luglio, per le esequie. Non se li toglierà più.
Nella più scavata intervista che Ferrari accetta di fare (“Ferrari – La confessione-ritratto di un uomo che ha vinto tutto tranne la vita”, Rizzoli, 1980), Biagi lo incalza: “Ma cos’è per lei la vita?”. Risponde da dietro gli occhiali scuri (“i miei sentimenti non sono per la curiosità del mondo”): la vita è “un ansimante cammino in una smisurata prigione in cui tutti noi siamo rinchiusi”. Biagi insiste: “Preciso: la sua, e quella degli altri?”. Risposta: “Siamo costretti a vivere; è un pensiero che ho scritto tanti anni fa e che porto con me. La vita è un enorme penitenziario che ha in noi mortali i suoi reclusi: l’egoismo ci domina e ci allontana dal prossimo, costringendoci a contare sulle nostre sole possibilità. … la pianta della speranza può germogliare soltanto se irrorata da un ideale.”.
Ferrari non voleva essere chiamato industriale; gli contrapponeva il termine “costruttore” perché ogni cosa deve essere generata non da un calcolo ma da una passione, da uno slancio, derivanti da una desideratissima, accudita creatività. Dove la questione non è espandersi ma ‘tradurre’: qualcosa che si trova dentro e che viene posto fuori per essere contemplato (come per Plotino nelle “Enneadi”).
Andandosene via Dino, Ferrari si rende conto come i figli siano l’immagine fedele dei tuoi sogni di bambino che tornano a reincarnarsi in una speranza, in una attesa che promette che durerà, che si realizzerà, che continuerà dopo di noi: un pegno sull’infinito. Perché bisogna, si deve, è proprio indispensabile rimanere ragazzi. Non è distacco dalla realtà, è possibilità di cambiarla, di trasformarla, di rigenerarla.
“I sogni sono sempre più belli della realtà, perché non tengono conto di tutto il travaglio che precede il compimento, ma offrono soltanto l’immagine di un risultato, quando sono felici. Penso di avere avuto tante cose sproporzionate ai miei meriti e di essere stato privato di sentimenti consolatori, di affetti essenziali che avrei anteposto a qualsiasi altro risultato. È difficile fare un consuntivo: ho lavorato tanto, non sono ingegnere, sono stato punito, ho pagato caro tutto quello che ho avuto. L’ultimo conto è stato enorme.”. Ed a questa domanda di Biagi – “Che cosa ha giocato di più nella sua storia, la passione o il desiderio di affermarsi?” – lascia un messaggio che tocca a noi incendiare nei nostri ragazzi di oggi: “Direi che la passione è stata l’elemento determinante e alimenta tutt’ora le mie azioni, la mia vita. Quello che ho fatto non è stato altro che la realizzazione di un amore dell’adolescenza.”.
Ma per concludere questa saga artigiana italiana, tutt’ora l’unico deposito di risorse Vere che ha l’Italia, un ricordo della madre: “Da lei ho attinto molto nei momenti di crisi perché mi spingeva a buttarmi nei miei progetti per neutralizzare il più possibile le pene che mi assillavano. “Pensa a quello che devi fare domani,” – mi diceva – “non smettere mai.”.