Quale legittimazione ha un partito o una coalizione, in un sistema democratico, di modificare unilateralmente le regole fondamentali, ossia con le sole forze di maggioranza, sulla base di una pretesa prevalenza del responso popolare (che, nel nostro caso, rappresenta appena il 30% degli elettori, su poco più della metà degli italiani che si sono recati al voto) rispetto alle garanzie di libertà e autonomia poste a fondamento della convivenza democratica dalla Carta Costituzionale?
Questo interrogativo si ripropone nelle preoccupazioni e nei commenti di una parte significativa della stampa, di fronte alle crescenti pretese del governo delle destre sovraniste e populiste di non tollerare ostacoli normativi di alcun genere per attuare gli impegni assunti in campagna elettorale, anche a costo di stravolgere i principi basilari della nostra Costituzione.
Molti costituzionalisti mettono in guardia: modifiche unilaterali, seppur a maggioranze risicate, così temerarie della Carta costituzionale, senza un minimo di dialogo con l’opposizione, pur nel rispetto delle garanzie procedurali (compreso l’ineludibile referendum), non fanno altro che esporre il Paese a divisioni perniciose e tensioni sociali.
È evidentemente il segnale inquietante di uno scenario in cui l’attacco concentrico alla nostra Costituzione è ormai una costante.
L’ultimo esempio in ordine di tempo è la stupefacente affermazione del Presidente del Senato, La Russa, che ha dichiarato, senza equivoci: “Serve più chiarezza sui rapporti tra politica e magistratura, cambiamo la Carta”.
Questa dichiarazione segue la recente pronuncia del Tribunale di Roma, che ha sancito l’invalidità e l’illegittimità della decisione governativa di eseguire determinati trasferimenti, in contrasto con le normative europee e con la linea interpretativa della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Anche il governo ha reagito duramente, bollando la magistratura come un organo che, più che fare giustizia, farebbe politica attiva, quasi schierandosi con le attuali opposizioni.