1 maggio, la questione sociale e la politica.

Il 1 maggio 2021 ci ripropone un tema del passato ma oggi quantomai centrale: ovvero, il ritorno  della “questione sociale”.

Il 1 maggio 2021 ci ripropone un tema del passato ma oggi quantomai centrale: ovvero, il ritorno  della “questione sociale”. Un elemento che si è pericolosamente acuito con la pandemia e che, al  di là delle maggioranze variabili di governo e della crisi profonda e speriamo non irreversibile della  politica, continua ad essere prioritario per la stessa agenda politica italiana. Del resto, le crescenti  disuguaglianze tra le persone, il conflitto tra le generazioni, l’aumento esponenziale della povertà  e l’aggravarsi della disoccupazione, giovanile e non, sono tasselli che contribuiscono  direttamente a far esplodere una nuova e diversa “questione sociale”. E proprio il 1 maggio ci  deve spronare a non aggirare l’ostacolo. Non lo può fare il Governo, non lo può fare la politica e,  men che meno, quei partiti e quelle culture politiche che storicamente affondano le loro radici  ideali direttamente nell’umanesimo cristiano e nel popolarismo di ispirazione cristiana. 

Al riguardo, voglio sommessamente ricordare – anche se sono cambiate profondamente le  stagioni politiche e, purtroppo, anche i leader politici che hanno segnato il cammino e la storia  della nostra democrazia – che proprio uomini come Donat-Cattin e Marini hanno sempre posto la  “questione sociale” al centro della loro agenda politica e di governo. Ed erano tempi, certamente  difficili e complessi, ma dove l’emergenza sociale non era grave come quella che stiamo vivendo  dopo questa terribile e persistente pandemia. Una “questione sociale” che è stata centrale in tutto  il magistero di Donat-Cattin e che culminò con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori ma che  accompagnò tutta la sua attività parlamentare sin dalla sua prima elezione alla Camera dei  Deputati nel 1958. E proprio la cosiddetta “corrente sociale”, o sindacale, della Democrazia  Cristiana ha fatto da sfondo per questa sottolineatura e richiamo nel dibattito politico e  parlamentare. E così è stato per Franco Marini dopo le elezioni del 1992. E, non a caso, aver  ricoperto, entrambi, il ruolo di Ministro del Lavoro è stato il riconoscimento politico di quella  precisa sensibilità del partito di riferimento, la Dc, ma anche e soprattutto la consapevolezza che  se si voleva declinare una politica popolare a difesa dei ceti popolari ed essere, al contempo,  attenti alle richieste che provenivano dal mondo del lavoro, non si poteva fare a meno della  competenza, della cultura e della esperienza maturata da esponenti che provenivano direttamente  da quelle realtà. E proprio su questo versante, l’esperienza di Marini e di Donat-Cattin è quanto  mai significativa e pertinente. 

In effetti, la preoccupazione costante di Donat-Cattin e di Marini di porre la “questione sociale” al  centro di ogni indirizzo politico non si risolveva solo nello sforzo di condizionare le scelte di  politica economica e salariale ponendosi dal punto di vista dei ceti subalterni: scelte che ebbero  conseguenze incalcolabili nel determinare lo sviluppo complessivo della società italiana per le  enormi potenzialità di lavoro, di intelligenza, di imprenditorialità diffusa che le classi popolari  seppero sprigionare in un paese come l’Italia, privo di materie prime e di capitali e ricco solo di  braccia e di intelligenza pratica. La loro ambizione comune è sempre stata più grande. Entrambi  volevano che nell’architettura amministrativa dello Stato democratico quei ceti e quelle istanze  non avessero un ruolo residuale nè meramente aggiuntivo. Il dato nuovo dell’azione di Donat Cattin prima e di Marini poi, in sintesi, doveva consistere “nel dare alla politica sociale  complessiva – per usare le parole dello statista piemontese – un ruolo non più subalterno, ma  primario per la vita dello Stato, anche nella sua espressione politico/amministrativa”. 

Insomma, questa precisa concezione riguardante la centralità della “questione sociale” era  semplicemente riconducibile al fatto che l’istanza sociale “doveva farsi Stato”. Trovare, cioè,  piena ed irreversibile cittadinanza ad ogni livello dell’organizzazione amministrativa e della  gestione della cosa pubblica. E il loro radicamento nel sociale, vissuto e mai solo sbandierato o  ipocritamente propagandato, si saldava anche con le esigenze più mature e moderne dello Stato  di diritto. 

Ecco perchè questo 1 maggio deve anche saper riflettere, e senza una ridicola e grottesca  propaganda, sul ritorno di una sempre più preoccupante “questione sociale”. Che era, e resta,  una delle emergenze più grandi della nostra società e della nostra democrazia.