In questi giorni mi è tornato alla mente il Giro d’Italia del 1924: in particolare, il ricordo va ad Alfonsina Rosa Maria Morini, nativa di questa regione.
Nel 1924 un fatto assai curioso caratterizzò lo svolgimento del Giro d’Italia. Nella dodicesima edizione della corsa Rosa, le squadre si rifiutarono di partecipare per via di alcuni dissensi economici sugli stipendi. Così i ciclisti che vollero prendere parte alla competizione dovettero iscriversi a titolo personale. Il giro fu suddiviso in 12 tappe, ognuna delle quali intervallata da un giorno di pausa. Tappe massacranti che andavano dai 250 km ai 415 km e che provocarono molti ritiri dalla gara.
Ma ciò che più mancò, quell’anno, fu la partecipazione dei grandi campioni: Girardengo, Belloni, Bottecchia, Brunero. Quindi, per sopperire alla mancanza di visibilità che sicuramente sarebbe scaturita dalla loro assenza, l’organizzatore del Giro – Emilio Colombo – ebbe l’idea di accettare la candidature di Alfonsina Rosa Maria Morini. Unica donna, ancor oggi, che abbia mai preso parte a quest’esperienza.
Ma nel 1924 non si era stati attenti alle esigenze dell’altra metà del cielo, e così la ragazza di Castelfranco Emilia si trovò a disputare una competizione molto più complicata rispetto ai suoi colleghi. Costretta a dormire nei fienili, a usare i servizi igienici dopo i colleghi uomini – il maschilismo non era neppure mitigato dalla galanteria – i suoi tempi non furono certo brillanti, ma riuscì ad arrivare ugualmente a Milano.
I diritti non sempre sono facili da ottenere e questo lei lo sapeva bene. Non era certo una ragazza che si lasciava abbattere dalle difficoltà, proveniva da una famiglia di braccianti, che riuscì a procurargli una bicicletta sulla quale Alfonsina imparò a pedalare e a gareggiare. In seguito fu costretta dalla mamma a sposarsi per poter continuare a praticare la sua passione.
Così, all’età di 14 anni, convolò a giuste nozze con il milanese Luigi Strada, pronto a regalarle una bicicletta come speciale dono di nozze. Donna con una volontà di ferro, lottò non solo contro le salite, ma anche contro l’educazione maschilista imperante, trovando sempre grandi difficoltà sul suo cammino. Molte di queste furono dettate anche dalla peculiare condizione politico-culturale degli anni ’20, in un paese con lo sguardo rivolto solo a sé stesso.
Solo il giorno della partenza della gara si scoprì il nome di Alfonsina; infatti sino a quel momento, sulla “Gazzetta dello Sport”, era pubblicato un elenco dei partecipanti che riportava il nome di Alfonsin Strada, mentre sul “Resto del Carlino” si citava la presenza di un certo Alfonsino Strada. Non era questione di refusi. L’organizzatore del giro e direttore della “Gazzetta” conosceva bene la situazione e la ciclista, per altro, già si era fatta ammirare in altre competizioni come il Giro di Lombardia e il Giro di Pietroburgo. In quest’ultima circostanza ricevette la medaglia dallo Zar Nicola II.
Queste erano le premesse, quindi non deve sorprendere che l’accoglienza riservata alla ciclista fu particolarmente calda. Il pubblicò presto si innamorò di lei, riservandole grandi onori agli arrivi. Lanci di fiori e abbracci non mancarono neanche dopo i ritardi accumulati nel corso delle varie tappe.
Il “Diavolo in Gonnella”, così fu soprannominata dagli appassionati. E quel diavolo non si fermò, continuò la sua gara, in pantaloncini e maglietta, contro i pregiudizi di quegli anni, non curandosi minimamente dei perbenisti. Aveva voluto la bicicletta…e pedalò.